“Ch’era beddru na vota lu Natali /quannu i carusi acchiavanu i riala/chi festa ranni, china d’innucenza/ china di così dunci e tanta spranza“. Il compianto maestro-poeta Peppe Casà inizia con questi toccanti versi la sua poesia “Natali di na vota” .
A Favara, come del resto, in tanti paesi poveri del Sud, il Natale si aspettava per 364 giorni. Era la festa dell’anno, che segnava la nascita di Gesù e la felicità dei più piccoli nel trovare sotto artigianali presepi non giocattoli e oggetti tecnologici di oggi ma “cosi dunci”. Bastavano un pugno di caramelle, un pezzo di torrone per rendere felici i bambini con le toppe nei pantaloni. Era un mondo non di mille anni fa, ma quello che ancora viene ricordato e raccontato dai nonni del paese.
Basta fermarsi sotto i ficus di Piazza Cavour e chiedere ai suoi quotidiani frequentatori dai capelli bianchi cosa ricordano del Natale di una volta ed inizia la proiezione di un film in bianco e nero, fatto di racconti e senza immagini. Alcune cose ancora a Favara rimangono vive nella tradizione popolare, altre sono scomparse. La città, che dal centro storico si è trasferita negli immensi quartieri di periferia, pieni di negozi con vetrine ed insegne luminose e di palazzi senza prospetto, vive il Natale attorno ai presepi. Soprattutto nei quartieri cosiddetti popolari. Assente invece l’aria di Natale nei quartieri dei condomini, dove presepi della Thun fanno bella mostra negli eleganti appartamenti favaresi ma dove nessun addobbo della festa fa respirare l’aria natalizia nelle strade e piazze. Per fortuna le “nuveri”, i mega presepi allestiti da comitati spontanei e da gruppi parrocchiali, permettono ai più piccoli di vivere l’Attesa tra musiche natalizie e suoni tradizionali.
Dai presepi è sparita però la “sparacogna”, una particolare erba mediterranea spontanea che serviva a rendere coreografiche le edicole votive del passato. Alla sparacogna, arance e cotone adesso si preferiscono i giochi d’acqua, i personaggi in movimento, le luci ad effetto. Ma va bene lo stesso, se l’obiettivo è quello di mantenere viva la tradizione popolare del Presepe. I più vecchietti ricordano Francesco, il violinista cieco che allietava il Natale e le altre feste con il suono delle corde del suo violino e la sua voce. Francesco camminava per strada da solo, senza aiuto di assistenti o cani. Al buio della sua cecità “vedeva” strade e vicoli, sapeva dove mettere i piedi, si orientava con un tom-tom personale da fare invidia ai sofisticati sistemi satellitari di oggi.
Francesco il cieco cantava le “Novene” di Natale, ed i bimbi e anche i grandi a seguirlo per strada. Bastava il suono del suo violino per far dimenticare, per un momento, il lavoro sotterraneo tra lo zolfo della Ciavolotta o le giornate a pascolare pecore o coltivare i campi. Su Francesco a Favara si ricorda un simpatico e curioso aneddoto. Una sera, nel periodo natalizio, si trovava in Chiesa Madre in compagnia dell’Arciprete del paese. All’improvviso sia la Chiesa che i vicoli del paese rimasero al buio per un improvviso black out. L’Arciprete non sapeva come far ritorno a casa e Francesco, abituato al suo “mondo buio” lo accompagnò fino alla sua abitazione senza nessun problema.
Da Francesco il cieco a Vicenzu u mutu, storia di personaggi popolari che la storia locale rischia di dimenticare. Vicenzu u mutu, oltre alla sua disabilità, era anche un bonaccione. Un Natale diventò il protagonista sui banconi dello storico Caffè Albergamo in Piazza Cavour. Era l’inizio del secolo scorso e il maestro dolciario Albergamo pensò di dedicare a Vicenzu u mutu lo “stampo” di un ” pupu di zuccaru”, dolci particolari a base di zucchero che prendevano forme svariate, di animali e bambini, di soldati a cavalieri. Non sappiamo se era un omaggio ad un cittadino debole di Favara o un modo per attirare l’attenzione dell’intero paese che corse in massa in pasticceria: sicuramente Vicenzu regalò un Natale “dolce” a chi durante l’anno lo sbeffeggiava.
24 dicembre 2012