Coronavirus e didattica a distanza. In uno stato di emergenza globale, in cui la gente muore e muore, era proprio necessario continuare ad indottrinare gli studenti?
Sono stanca, arrabbiata e frustrata. E credetemi, non è perché io resto a casa. Io a casa ci starei benissimo, non mi manca nulla e da persona con un minimo di intelligenza so anche che è l’unico modo per non ammalarmi. Dunque, cosa succede?
Succede che tutti i miei timori su quella bella, splendida, innovativa metodologia pedagogica chiamata didattica a distanza, ogni giorno che passa diventano una cruda realtà. Premetto che insegno da trent’anni e che ho scelto di essere un’insegnante, non di fare l’insegnante. Io nel mio ruolo, nella mia professione ci ho sempre creduto. Ho cercato di dare sempre il mio massimo, accettando i miei limiti, i miei fallimenti, le mie difficoltà.
Sono stata sempre al passo con i tempi, gli orientamenti, le indicazioni, non fosse altro perché l’inglese, la mia disciplina di insegnamento, me lo impone. E allora vai con le classi virtuali, Lim Book, App Book, attività interattive, utilizzo di app e strumenti digitali, flipped classroom e altro ancora, tutti strumenti preziosissimi se affiancati e integrati all’insegnamento tradizionale in presenza.
In trent’anni, poi, mi sono dovuta riadattare sposando le varie scuole di pensiero pedagogico che mettevano al centro l’alunno, che ne coglievano i bisogni, le potenzialità, le intelligenze. Ho dovuto razionalizzare il processo di empatia che sempre avevo inconsciamente agito per catalogarlo in una delle attitudini a cui venivo chiamata e fare della didattica emozionale il mio cavallo di battaglia. Le emozioni, un potenziale su cui fare leva per rendere efficace l’insegnamento. Bene, fatto tesoro di ogni stimolo proveniente dai piani alti, mi sono sempre reinventata per andare avanti. Ci sono riuscita? Non lo so, perché un bravo insegnante non può essere giudicato nel breve termine, ma nel lungo o lunghissimo termine. I miei attuali studenti potranno dire di aver avuto una buona insegnante solo quando saranno al liceo o all’università.
Ma questo poco al momento importa. Ciò che invece mi fa arrabbiare è che tutto quello in cui ho creduto sino ad oggi è stato improvvisamente cancellato per fare posto all’impellente necessità di istruire a distanza.
Ora io dico, in uno stato di emergenza globale, dove la gente muore, e muore per davvero, era proprio necessario continuare ad indottrinare gli studenti? Non si poteva mettere in stand by l’anno scolastico e magari a luglio riprendere le attività? Forse sì, forse no.
Io questo non lo so, non sono Azzolina, ma sono Valeria e capisco che il danno che sto facendo con questa didattica a distanza difficilmente potrà essere riparato.
Premetto che condivido appieno l’esigenza di mantenere un contatto emotivo con i miei alunni, che sia necessario, oggi più che mai, fare sentire a ciascun bambino la mia presenza, la mia vicinanza, che in qualche modo li tiene legati ad una normalità completamente spazzata dal dilagare del contagio. Questa cosa sicuramente mi piace. Ciò che invece non mi piace è l’idea di trasformare la didattica in un compitificio tracciabile, dove ogni attività per essere rendicontata deve passare attraverso il registro elettronico, perché ne va lasciata traccia. E allora, prima di catapultarmi in questo incredibile sistema ho voluto condividere con tutti i miei alunni un video, in cui ci ho messo la faccia stanca, tirata, senza trucco, provata dal carico emotivo di una pandemia che comunque ti fa fare i conti con la precarietà della vita. E dopo il video, ho inizio a mandare compiti non capendo mai se sono troppi o pochi, perché non lo so quanta concentrazione abbiano i miei studenti, quanto interesse manifestino verso le mie consegne. So solo che nei messaggi vocali, nei video, nelle foto che mi girano chiedono tutti la stessa cosa: “Maestra, quando ritorniamo a scuola?”
E io, arrampicandomi sugli specchi, cerco di fare capire che non lo sappiamo, che non è possibile fare previsioni, che se vogliamo ritornare a scuola al momento dobbiamo stare tutti a casa.
E intanto creo classi virtuali, registro videolezioni, mi sparo video per ricordare ai miei cuccioli che li sto pensando e gli sono vicina. Il tutto in tempo reale, senza pensare, pressata da tutte le circolari applicative, i chiarimenti, le precisazioni che il mio dirigente può e deve mandarmi. Mi confronto con le colleghe, ci ricordiamo che dobbiamo andarci piano, che dobbiamo essere caute, che non dobbiamo sovraccaricare i bambini, che non possiamo stressare le mamme e bla bla bla.
Ma intanto devo mandare compiti, giusto per consolidare e per rafforzare quanto fatto sino agli inizi di marzo, ricordando nei miei messaggi che non è necessario stampare le schede, che le schede vanno ricopiate. Lo ricordo alle famiglie e lo ribadisco a me stessa perché so che non tutti hanno la stampante. Ma poi penso come fanno tutti quei genitori che non hanno la stampante a ricopiare le schede dallo schermo di uno smatphone, visto che oltre a non avere una stampante, magari non hanno neanche un computer? E mentre scrivo i miei bei messaggi penso anche che ci sono famiglie che ancora non riescono per un motivo o per un altro ad accedere al registro elettronico e chiamo le rappresentanti, pregandole di condividere in chat su Whatsapp il materiale. E le consegne si accumulano, le mamme fanno compiti, i bambini disegnano arcobaleni, tutti in formato 70×100 perfettamente colorati con su scritto “Io Resto a Casa”. Ed ecco che si scatena la corsa a chi crea la migliore presentazione con le foto dei bambini, tutti messi in posa orgogliosi del proprio capolavoro.
Ora, che i bambini si siano divertiti a colorare arcobaleni io non ho alcun dubbio. Ciò che invece mi chiedo è: “Ma questi cartoncini bianchi 70×100 tutti a casa ce li avevano oppure i genitori si sono dovuti catapultare in cartoleria, violando il decreto, per andare a comprarli?” Boh!
Comunque, l’opera è andata avanti sino a quando non si è presentato il problema delle restituzioni. Se per alcuni è già un problema scaricare i compiti, scannerizzarli e restituirli pensate sia un gioco da ragazzi? E poi, che senso ha correggere delle consegne svolte sotto la vigile e puntuale presenza dei genitori? Giusto per avere un feedback in cui mi si dimostri che stanno lavorando? Ma passiamo avanti e tuffiamoci nella rete con la creazione delle classi virtuali, procedendo anche in questo caso per step, magari con gli studenti di quinta indiscutibilmente supertecnologici.
Una passeggiata direte? L’ulcera mi è venuta. Giuro. Una semplice registrazione, in un momento in cui ogni singola piattaforme è sovraccarica, è diventata una sfida. Telefonate, messaggi, controlli incrociati di dati, tentativi di accesso, email non riconosciute, password errate, mamme disperate. Interi pomeriggio a provare gli accessi, a programmare lezioni live per far acquisire familiarità agli studenti con la piattaforma, connessioni perse, problemi d’audio, fruscii di ritorno, video oscurati. Un inferno. Un inferno per me, che da anni utilizzo le classi virtuali, ma con modalità soft, spiegando in presenza come accedere, aiutando dal vivo chi ha difficoltà, dando il tempo a ciascuno di familiarizzare con gli strumenti. Non in questo modo selvaggio, tutto fatto presto e subito, in un’unica soluzione.
Ed ecco che finalmente arriva il giorno della Live Lesson. Tutti pronti e felici aspettiamo di collegarci. Parte il collegamento, vedo in linea uno studente, ma non lo sento. Sento un secondo studente, ma non lo vedo. Ce n’è un terzo che vedo e sento. Che gioia! Un quarto continua a mandarmi messaggi dicendomi che non lo fa entrare. E così all’infinito. Quando il live sembra funzionare, inizio a disciplinare i microfoni e ci ritroviamo, mentre ce n’è sempre un paio che non riescono a collegarsi, perché hanno problemi di linea, o hanno finito i Giga, o il loro computer è obsoleto, o non hanno il computer e il telefono che stanno usando è carico di app inutili e non si connette, e mandano messaggi e strillano e sbattono i piedi delusi e amareggiati. E le mamme lì a fare lo stesso.
Ovviamente tutto questo avviene perché la Ministra Azzolina ha dato per scontato che tutti gli studenti e i genitori italiani fossero non solo supertecnologici, ma anche forniti dei più moderni supporti elettronici, che in ogni famiglia ci fosse la fibra e che nelle famiglie dove ci sono quattro studenti ci siano almeno tre device efficienti. Purtroppo non è affatto così. Ed è per questo che la mamma di Agnese mi telefona e mi chiede se le lezioni le possiamo fare magari nel tardo pomeriggio, perché di mattina il computer lo usa il figlio liceale, nel primo pomeriggio la figlia che va alla media e magari la sera potrebbe usarlo Agnese. Azzolina non sa che ci sono famiglie dove da settimane non entra un soldo a casa e che è diventato impossibile fare la spesa. E io sto lì a rompere con la didattica a distanza, con le live lesson, con i meeting.
Tutto ovviamente diventa più facile con gli studenti più grandi, quelli della secondaria, che si registrano senza problemi, si collegano senza difficoltà, che hanno lo smartphone, che decidono di mostrarsi in video se gli va, si oscurano se non sono presentabili, fanno merenda mentre i prof spiegano e si riflettono sul monitor mentre tu continui a ricordargli che quello che stanno fissando non è uno specchio e che tutti li stanno vedendo.
Bastano un paio di live per padroneggiare i meccanismi e allora quando il docente ti dà la parola se non hai la risposta puoi fare sempre finta che non ti funziona l’audio, se ti chiede di scrivere in chat puoi sempre abbandonare il live con l’alibi che c’è un problema di collegamento. Insomma di strategie ce ne sono parecchie e i nostri studenti in questo sono abili discenti.
E poi c’è il problema della privacy. Grosso problema, grande problema. Perché mentre per gli studenti della secondaria si presume che assistano nel privato delle loro camere alle lezioni, per i più piccoli spesso non è così. C’è sempre la mamma o la sorella più grande che vigila sul collegamento, neanche fosse una diretta a reti unificate, che incoraggia il figlio a rispondere bene alla domanda della maestra a sottolineare quanto Filippo, Martino, Nestore e Marcella siano scarse. Ecco, le live lessons violano ogni forma di privacy, esponendo i nostri ragazzi al giudizio delle famiglie. Questo mi pare un problema serio. Allora qualcuno potrebbe dire di evitare di fare domande. Ma se non fai domande, dove sta il feedback? Dov’è l’interazione? Dov’è la comunicazione, la relazione, lo scambio? Forse andrebbe meglio registrare una lezione con la tua pronuncia discutibile e girargliela. E il dubbio comunque rimane. Sono stata chiara nella registrazione? Hanno capito? Il metodo funziona? Allora faccio un giro di audio messaggi in chat per sentire ogni singola mamma e capire com’è andata.
Così arriva la sera e ti ricordi che da qualche giorno non senti i tuoi cuccioli, quelli piccoli di prima. Ti siedi sul divano e ti spari un video. Però non vai dal parrucchiere da due mesi e i tuoi capelli sono diventati refrattari ad ogni trattamento; l’estetista non ti ricordi neanche quando l’hai vista l’ultima volta e le tue sopracciglia lo stanno gridando; quel filo di trucco che sino ad una certa ora del giorno eroicamente reggeva adesso è caduto per dare libero sfogo a rughe, borse e occhiaie. E come se non bastasse tutte le fragole che ti sei ingurgitata per placare lo stress adesso ti stanno presentando il conto con un eritema di dimensioni astronomiche. Ma tu il video te lo spari lo stesso, perché sei e vuoi essere autentica. Non è questo il momento della perfezione. Questo è il momento in cui devi essere vera. È il momento in cui devi esserci e devi ricordare ai tuoi cuccioli quanto ti mancano.
Stanca, frustrata e arrabbiata te ne vai a dormire, consapevole di aver dato il tuo massimo in un momento in cui il massimo non è mai abbastanza.
Cosa ti fa alzare dal letto il giorno dopo? Tutti i messaggi, i video, i vocali che i tuoi alunni ti hanno inviato dopo che tu hai silenziato il telefono, in cui ti dicono: “Maestra Valeria mi manchi, ti voglio tanto bene. Spero di poter ritornare presto a scuola.”
E allora capisci che sono queste le espressioni più vere di quella che la Ministra Azzolina chiama Didattica a Distanza.