Presentato ieri sera al Castello Chiaramontano il libro di Silvano Messina “Antichi mestieri”. Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, la postfazione di Salvatore Picone
Si possono solo immaginare quegli occhi lucidi pieni di stupore e di entusiasmante attesa. Occhi di donne e bambini davanti a quei foglietti che svelavano sorti, avvenimenti e avvertimenti, numeri da giocare. Possiamo solo immaginare l’uomo delle pienete in giro per le strade di Racalmuto assieme al suo pappagallino portafortuna. E ci mancava – delle tante cose lette su Racalmuto, la sua microstoria e i suoi personaggi – un piccolo e angosciante episodio di una stagnina, un’artigiana che lavorava con le lamiere e lo stagno, che riaprì, supplicata da nonne vestite in nero, la piccola bara di una bambina per posarle tra le braccia la sua amata bambolina.
Terribile e malinconica storia di un’amabile signora che ha vissuto, tra la prima e la seconda guerra, fra rame, ferro e zinco a riparare e saldare pentole e tegami, brocche e boccali. Il suo volto annerito dalla fuliggine nascondeva una donna generosa e sensibile.
Così come era donna Rosalia, famosa per la sua gobba e per le iniezioni che faceva in tutto il paese. I ragazzi, quando la incrociavano in piazza o in una stradina, fuggivano impauriti. E la Marrabina, poi: un altro personaggio. L’ho conosciuta anch’io negli ultimi anni della sua vita, silenziosa e solitaria, nella piazzetta di San Pasquale, quando già aveva chiuso la sua bottega e si occupava solo della piccola chiesetta di fronte la sua casa.
Con questo libro di Silvano Messina – Antichi mestieri (Armando Siciliano Editore) – molti apprenderanno (e altri ricorderanno) storie di dignità e coraggio legate a mitici personaggi della memoria collettiva di questo paese. Quasi un’appendice a quel romanzo straordinario – L’ultima matriarca – che Messina ci ha regalato anni fa.
L’autore ripercorre i suoi passi a piedi passi a memoria (per dirla con Castelli) sin dalle prime pagine di premessa, quando ci descrive Racalmuto sociologicamente e antropologicamente, partendo dal numero di abitanti che anno dopo anno si riduce vertiginosamente, lasciando vuoto un centro storico che ancora racconta la ricchezza e la grandezza di un paese con il suo splendido teatro, le chiese, il castello, le piazze grandi, i circoli. Quasi come se fosse un’amara constatazione e un triste avvertimento: di come questo paese è diventato rispetto al periodo d’oro che va tra la fine dell’Ottocento fino agli anni Cinquanta del secondo dopoguerra, e del vuoto che sarà se non si corre subito ai ripari.
Le storie e le vicende dei personaggi e dei loro mestieri scomparsi raccontati nel libro, in definitiva, ci consegnano un messaggio: la mancanza nei giorni nostri di un sogno collettivo. Anche se i protagonisti di questi racconti sono semplici e poveri, con le loro attività dimostravano di avere una grande voglia di riscatto e di crescita. Personaggi di un mondo pirandelliano – come lu ‘zi Tanu Bamminu, il puparo che esagerava nel numero degli infedeli uccisi da Orlando, raccontato da Sciascia in Occhio di capra – illuminati di umanità e ironia che regalavano sogni e speranze. Silvano Messina scava. Dalla sua memoria e soprattutto da quello che dalla memoria dei suoi gli è stato trasmesso. Regala poi alla scrittura racconti e fatti come se fossero sogni.
La memoria, i sogni. La memoria come sogno, scriveva Vincenzo Consolo ricordando l’amico Leonardo Sciascia, e parlando di quel film straordinario, Nuovo Cinema Paradiso, che è, come questo libro, “un racconto di tristezza, di rimpianto per un mondo, per una società che sta perdendo o che ha già perso la capacità e il bisogno di sognare”.