Omaggio ad una delle più appetitose leccornie gastronomiche isolane. “Succhiare” per credere
Oggi vi parleremo della Helix Pisana, comunissima in tutte le campagne siciliane. Dal mare all’entroterra, non esiste infatti angolo di un muretto a secco o arbusto della macchia mediterranea che ne sia sprovvisto, praticamente fa parte integrante di ogni paesaggio nostrano all’aria aperta. Di cosa stiamo scrivendo? Della specie di chiocciola (o lumaca, fate voi) terrestre, di piccole dimensioni e dal colore chiaro – generalmente fondo bianco con striature beige – di cui sull’isola tutti, pochissime le eccezioni, sono ghiotti. Il termine dialettale per identificarle è Babbaluci (etimo che ha lontane origini, poiché deriverebbe dal greco antico boubalàkion, ovvero “piccolo bufalo”, così attribuito molto probabilmente per le loro corna) e la ricetta che le vede protagoniste assolute è considerata tra le più appetitose leccornie gastronomiche isolane.
Ma, come sempre, proviamo ad andare con ordine.
Le chiocciole sono consumate da tempo immemore, erano conosciute, per la loro facilità di raccolta, già in epoca preistorica (anche se a quei tempi, più di cinquemila anni fa, probabilmente venivano mangiate crude) e con certezza sappiamo che furono utilizzate in cucina anche in epoca greca e romana. E si deve proprio a quest’ultimo periodo la prima fonte scritta che le riguarda: nientemeno che ben quattro ricette per cucinarle, contenute nel celebre De Re Coquinaria, un trattato-ricettario redatto in epoca augustea dal cuoco e gastronomo Marco Gavio Apicio, opera da cui abbiamo acquisito, tra le altre, un’importante e curiosa informazione: durante il saeculum aureum, le babbaluci, prima d’essere preparate, venivano “lavorate”, per essere ripulite (spurgate), col latte. E, ovviamente, di secolo in secolo e di dominazione in dominazione, la loro bontà non è mai stata dimenticata, anzi. Infatti, già nelle corti europee del basso Medioevo, le lumache erano inserite nei pasti serviti sulle nobili tavole, ma, caso pressoché unico, le stesse, condite in un modo molto simile, erano anche ben presenti nella povera alimentazione del popolo: chi l’avrebbe mai detto, le babbaluci come comune denominatore gastronomico tra aristocrazia e volgo (e chissà che la tradizione di cucinare le famose escargot francesi non derivi proprio dall’uso culinario nostrano che i sovrani Angioini – nei loro seppur pochi decenni di dominio sull’isola – videro, apprezzarono e, magari, poi importarono in patria).
Cucinate con ingredienti semplici e una procedura altrettanto facile, erano (e sono ancora) infatti unite a olio, aglio, prezzemolo, sale e pepe, nella versione “in bianco”, e con l’aggiunta di un po’ di salsa di pomodoro, nella versione “in rosso”. Succulenti e profumatissime, vengono consumate col classico “succhio” (ma c’è anche chi, per evitare suoni “strani”, utilizza un comunissimo stuzzicadenti), tecnica che addirittura è stata consegnata alla storia nell’aforisma popolare (chiaramente molto datato) Babbaluci ‘a sucari e fimmini ‘a vasari nun ponnu mai saziàri, ovvero “non ci si potrà mai stancare di succhiare le lumache e di baciare le femmine”.
Recuperabili in natura praticamente sempre, sia durante le torridi estati che in inverno, soprattutto dopo i temporali (che, ancora oggi, si attendono per due motivi: l’acqua per le terre e il nèsciri pì cogliri babbaluci), in Sicilia il loro consumo è anche fortemente legato a una particolare festa, celebrata a Palermo la sera del 14 luglio di ogni anno, ‘U Fistinu, ovvero gli scoppiettanti e colorati festeggiamenti cittadini in onore di Santa Rosalia, patrona del nostro capoluogo. In quella data, in ogni angolo del centro storico panormita è presente un venditore (anche) di babbaluci, che vengono consumate rigorosamente in strada da migliaia di avventori, tanto che già nelle prime ore dopo il vespro, la pavimentazione delle strade è ricoperta da un manto di gusci vuoti e abbandonati, che a ogni passo scricchiolano come se si camminasse su una enorme e croccante pasta frolla. Certo, non sarà certamente il massimo dell’igiene e ci rendiamo conto che a più di qualcuno la cosa potrebbe far storcere il naso (e non solo quello…), ma, si sa, alla tradizione non si comanda.