Nel giorno di Santa Lucia rileggiamo un testo poco conosciuto dello scrittore in veste di gourmet
Sembra facile fare un’arancina? Per Leonardo Sciascia, maestro anche in cucina, le arancine a regola d’arte – come quelle dei benedettini de I viceré “grosse ciascuna come un mellone” – richiedono un dosaggio e un’attenzione “da non credersi”. Ancor prima delle arancine ( “arancini”, Camilleri dixit) celebri del commissario Montalbano, Sciascia ci dà sacra rappresentazione della regina palermitana che si “magnifica” nei giorni di Santa Lucia.
Minuzioso, attento alla sostanza e alla dose – come nelle parole che fanno le pagine dei suoi libri dei veri capolavori – Sciascia scrive nel 1962 per L’Apollo Bongustaio, l’Almanacco gastronomico curato dal suo amico poeta Mario Dell’Arco, come ottenere l’arancina giusta che non sia come quelle che spesso si trovano nelle tavole calde che per lo scrittore “non sono più arancine nemmeno nella forma”. È Dell’Arco a chiedere, in lettera, “il solito pezzetto” per la sua rivista stampata nel dicembre di quell’anno.
Lo scrittore, che trascorre l’estate in campagna, alla Noce, per scrivere Il consiglio d’Egitto, è determinato: “L’arancina vuole l’olio d’oliva: di quello coi suoi buoni gradi di acidità, col vivo sapore dell’oliva, di brillante e denso colore… Perché l’arancina – scrive – deve avere croccante crosta, appunto del colore dell’arancia che comincia ad appassire: e per ottenerla bisogna sia immersa completamente nell’olio bollente, e tirata al punto giusto”.
Un piatto – amava dire Sciascia, – è come un buon libro: bisogna saperlo cucinare bene. E per l’appunto, sull’arancina: “La quantità dell’olio, e per conseguenza la grandezza della padella (padella, non tegame: e su allegra brace di legna), consente che l’arancina vada dalla grandezza dell’arancia a quella del melone: e bisogna badare a non friggerne molte con lo stesso olio, ché prendono se no scuro colore e gusto più acre, da pizzicare la gola. Sembrano semplici da farsi: del riso impastato con uova e pecorino, un ripieno di tritato e cipolla in soffritto, la modellatura di una palla; e prima di gettarle nella padella una passata nell’uovo battuto e poi nel pane grattugiato. E invece richiedono un dosaggio un’attenzione una spesa da non credersi”.
Lo scrittore di Racalmuto un po’ se la prende con le arancine fatte male “coni biancastri e molli che sembrano fritti nel sego o comunque dentro un olio che con l’olivo non ha né parentela né affinità”. E immagina, in questo raro scritto dell’Apollo Bongustaio, le cui pubblicazioni originali sono conservate da Pippo Di Falco nella Casa-museo a Racalmuto dove lo scrittore ha vissuto per quarant’anni (riproposto anni fa in “Sarde e altre cose allo zolfo” stampato in 575 per le Edizioni Henry Beyle), la faccia dei benedettini di De Roberto, il putiferio davanti a false arancine.
da REPUBBLICA PALERMO del 12 dicembre 2019