Il Covid, la scuola e la proposta di chiudere l’anno scolastico a fine giugno
Fa parecchio discutere in questi giorni la proposta di Mario Draghi di rinviare la chiusura dell’anno scolastico a fine giugno. Si tratterebbe di un’ipotesi necessaria per recuperare i giorni di scuola perduti, le ore contratte con la DAD, la qualità degli apprendimenti condivisi online.
Ed ecco che si scatenano le polemiche tra docenti, che gridano con forza “Noi con la DAD abbiamo lavorato più che in presenza”, sindacati che conteggiano le ore previste dal contratto di lavoro e genitori divisi un po’ da un lato e un po’ dall’altro.
Ovviamente il professor Draghi è uno bravo a fare conti, indirizzare fondi, pianificare strategie economiche, ma dubito fortemente che abbia esperienze recenti in campo educativo e didattico, di scuola insomma. Di certo, avrà al suo servizio una miriade di consulenti, anche questi bravi con le carte, i programmi, gli standard, ma forse non portati a convivere per più di un paio d’ore “face to face” con un bambino. .
A stare con i bambini si impara molto e forse il Presidente Draghi e i suoi consulenti dovrebbero farsi una bella vacanza a scuola. Proprio così. Dovrebbero abbandonare cravatta e giacca blu, indossare una tuta e un paio di sneakers e venirsi a rilassare a scuola. Un paio di giorni basterebbero per riportarli con i piedi per terra.
La scuola non è un posto dove si riempiono vasi vuoti, non è un luogo dove si contano i saperi, non è un ambiente dove si fanno gare a chi arriva primo. La scuola è altro. Innanzi tutto la scuola è vita, una vita fatta di relazioni, di incontri e scontri, di partenze e traguardi, di vittorie e fallimenti, di gioie e delusioni. La scuola è crescita, confronto, equilibrio, realtà. A scuola non conta quante cose sai, ma come le sai utilizzare. A scuola non conta avere dieci in tutte le materie, ma avere raggiunto il proprio massimo.
La pandemia ha devastato la scuola, relegandola dentro un monitor. I docenti si sono reinventati, mettendocela tutta per dare un senso al loro lavoro. Le famiglie hanno fatto miracoli per adeguarsi a tutte le richieste dei docenti pur di fare studiare i propri figli.
Ed ecco, adesso siamo ritornati tutti a scuola, respirando una parvenza di normalità. Nel rispetto dei protocolli ogni mattina entriamo in classe, incontriamo i nostri studenti, facciamo lezione. Per la prima volta dopo trent’anni di insegnamento inizio ad avvertire una sensazione strana, c’è qualcosa che io maniaca del controllo non riesco a controllare. Le lezioni sono svolte regolarmente, si spiega, si interroga, si interagisce. Le classi sono tranquille, i ragazzi apparentemente attenti e concentrati. Mi fermo. Li guardo negli occhi. I loro occhi sono spenti. I loro volti coperti dalle mascherine non sembrano esprimere nessuna emozione. Stanno lì seduti, composti, riconsegnandomi uno sguardo freddo, lontano, distaccato.
Un brivido percorre la mia schiena. I miei bambini hanno perso la loro spontaneità. Sono imbavagliati da un presidio chirurgico che gli nega l’espressione. Sono bloccati sulle sedie quasi fossero di plastica. E io spiego, interrogo, correggo. Sto riempendo vasi vuoti.
È arrivato il tempo di fermarsi, di dare una svolta a questa surreale realtà. Non credo sia il caso di continuare a violentare gli studenti fino a fine giugno tenendoli a scuola incollati alle sedie nel tentativo di riempire per bene le loro teste. La pandemia ha stravolto le loro vite. Adesso, più che mai, hanno bisogno di ritornare a vivere.
Caro Presidente Draghi, Lei che tutto puoò, restituisca il sorriso ai miei bambini. Mi creda è l’unica cosa, dopo la salute, di cui in questo momento hanno veramente bisogno. Tutto il resto, scuola compresa, è un optional.