Storie. Un personaggio buono e stravagante. Il vezzo di chiamare tutti per cognome, il mestiere di raccogliere erbe selvatiche e il gusto perenne per lo sberleffo a tutti i costi.
Se n’è andato, il 12 ottobre del 2009, un altro che i più giovani, a Racalmuto, neanche ricordano. Lillo Marino, classe 1933. Aveva la voce forte ma tremula nei toni alti. Chiamava tutti per cognome. E, come preda di un’atavica diffidenza, aveva l’ossessione di essere “fottuto” nei piccolissimi lavori cui era chiamato di tanto in tanto. Ha vissuto da uomo libero, da padrone della piazza, da clochard rispettato da tutto il paese. Lo vedevi trascinarsi la carriola per le strade, a volte vuota a volte carica di erbe selvatiche col cui commercio guadagnava pochi spiccioli. Sulle consunte scale della chiesa di San Giuseppe, cui era devoto, nei pomeriggi miti guardava passare la gente fumando il suo mezzo toscano.
La coppola sporca, i vestiti pure, la barba ispida, gli occhi acquosi e la sua innocua irriverenza verso persone e cose. La lingua lunga, lo sberleffo nel sangue. Pochi gli stupidi che lo disturbavano o lo offendevano.
Non ho mai capito se soffrisse la solitudine. Forse gli bastava essere lo specialista del territorio, capace di conoscer palmo a palmo contrade e dirupi alla ricerca di asparagi e cicoria e lumache e finocchietto. O forse no. Troppo tardi per capirlo e troppo stupido chiederselo ora se in molti anni non si è trovato il tempo di chiederglielo.
In un libro che i racalmutesi dovrebbero tenere sul comodino, perché contiene la chiave di lettura dell’ultimo triste scorcio della storia di Regalpetra, Gaetano Savatteri ricorda Marino (che rimase ferito a una gamba in una sparatoria di mafia) con il rispetto e la tenerezza che si deve a un ricordo.
“Marino si è messo la cravatta. Una cravatta americana a fantasia, dai colori accesi. Gli è stata regalata dalle sorelle canadesi. Quando i suoi parenti tornano in paese, Marino si toglie il cappotto sdrucito, gli scarponi chiodati, la coppola unta e va in giro come un signorino, in giacca scura, camicia azzurra e la cravatta canadese. Per la festa della madonna del Monte, molti anni fa, era venuta a trovarlo una nipote o cugina. Era giovane, bionda, magra, gli occhi celesti. Credo non parlasse una parola di italiano, ma stava sempre accanto a Marino: sedevano insieme sugli scalini della chiesa Matrice, in silenzio, a osservare il rito della passeggiata. Sembravano sereni e Marino manteneva un certo sorridente sussiego. Per il resto, Marino è anima libera. Conosce le contrade attorno al paese (…). Dopo le prime piogge va a scovare babbaluci. Marino conosce la campagna e conosce il paese. Ne percorre ogni strada vicolo quartiere, sempre spingendo la sua carriola. Trasporta legna da ardere, sabbia di cava, concime, carbone, argilla, pietre di zolfo, rocce di sale, balate di gesso e molto altro che non so. Trova, sposta, vende, commercia, traffica. E’ devoto di san Giuseppe, nato e cresciuto nelle case a ridosso della chiesa dedicata al patrono degli artigianelli. Spetta a lui recuperare legno vecchio, botti sfasciate, sedie zoppe, tavoli monchi, finestre sciancate da accatastare nella piazza del Castello per la grande vampa del 19 marzo. Marino comincia il suo lavoro una settimana prima: la montagna di legno cresce a vista d’occhio, la cima si alza, regge in bilico, rischi di crollare su se stessa. Nella sera del santo, Marino appicca il fuoco, lo alimenta e governa, orgoglioso dei commenti dei paesani. ‘Vampe così non ne sanno fare a Grotte’, dice uno, a ribadire l’antica rivalità col paese vicino. ‘Quest’annata è meglio delle altre’, fa un altro. ‘Minimo minimo questa vampa dura l’intera nottata’. Quando tutti vanno via, i bambini sulle spalle crollati nel sonno, resta solo Marino attorno alla vampa, ombra scura nel riflesso tremulo delle fiamme: con uno spiedo di ferro solleva nuvole di scintille dentro le quali sembra danzare, il volto rosso di calore, la coppola indietro sui capelli sudati”.
Se la scomparsa di Marino merita una pagina di giornale vuol dire che se l’è meritata per come ha vissuto, per l’avere cioè saputo capovolgere lo stereotipo del clochard silenzioso e appartato. Egli in qualche modo ha partecipato alla vita di questo paese con la sincerità degli uomini semplici, senza infingimenti e senza l’ossessione – spesso molto diffusa – di volere apparire come non si è.