In un intervento raro e introvabile di Leonardo Sciascia, lo scrittore racconta i mestieri della sua infanzia: “Tante parole erano cose e tante delle cose che erano parole s’appartenevano ai mestieri”.
Perché muoiono i piccoli paesi, mi domandava nei giorni scorsi un turista in giro per le vie di Racalmuto alla ricerca di pietre che potessero in qualche modo far rivivere qualche pagina di Sciascia, stordito dalla bellezza di certi scorci e dal silenzio. È la Storia, ho risposto genericamente, cercando di deviare il discorso, rispondendo che Racalmuto non è poi così terribilmente morto. Ma passeggiando per le vie del centro storico ho trovato la risposta alla domanda, in un intervento, ormai introvabile, di Leonardo Sciascia ad un convegno sui mestieri. Penso che un paese muore, ho detto al turista, che nel frattempo fotografava antichi balconi e gronde arrugginite, perché non ci sono più i mestieri.
I mestieri erano, ci ricorda Sciascia, “come il tessuto connettivo di una società, di un mondo”. Vedi via Baronessa Tulumello, per esempio. Qui in tanti venivano anche da fuori provincia, al negozio di scarpe di Mastrumasi o al vicino negozio di abbigliamento. Qui c’era un mulino. Qui una signora vendeva biscotti e ciambelle. E qui c’era la putia di vino e qua accanto un falegname.
Tutto il paese era, da quello che raccontano i nonni (gli storici più autentici e veri) un grande centro commerciale dove trovavi di tutto. Anzi, una fabbrica a cielo aperto. E ce ne dà autentica e affettuosa ricostruzione proprio lo scrittore in un intervento che fece nel 1980 in un convegno sui mestieri organizzato dall’Università di Palermo: “Nel paese dove sono nato e vissuto fin oltre la giovinezza, i mestieri che si esercitavano: del sarto – cinque o sei botteghe; del falegname – credo una decina; del fabbroferraio-maniscalco – non meno di cinque, del carradore – due; del bottaio – uno; del meccanico-armiere – due; dell’orologiaio – due; dello stagnaro – quattro; del conciabrocche – uno; del pasticciere con almeno una specialità – tre; del pastaio – due; cui è da aggiungere una miriade di calzolai che pochissimo lavoravano a fare scarpe nuove e moltissimo sulle vecchie. Le scarpe si risuolavano, così come i vestiti si rivoltavano e si adattavano al passaggio dal padre al figlio, dal fratello maggiore ai più piccoli. C’erano inoltre due botteghe di sarte, piccoli ginecei assediati dal passaggio dei giovani più oziosi, un paio di camiciaie e tante donne che nelle proprie case lavoravano a fare calzette o ricami per ristrette ma stabili clientele.
Un ragazzo che, come tanti ragazzi del paese, passava le giornate tra la scuola e la strada, aveva modo, per l’intreccio delle relazioni tra compagni, di frequentarle tutte; di vedere, di appassionarsi, e magari di rendere qualche servizio o aiuto ad ogni tipo di lavoro…”
Un altro mondo, insomma. Un altro pianeta. E non sarà stato difficile per Leonardo Sciascia prevedere la fine: “Tra qualche anno – scriveva – sarà difficile trovare in un paese un barbiere così com’è difficile trovarlo a Parigi”.
Sciascia, addirittura, da buon maestro di scuola elementare, dice che non c’è più infanzia senza i mestieri: “Nell’infanzia – scrive – si hanno più parole che cose: il che diventa sempre più vero, e non soltanto per l’infanzia. Ma allora, negli anni della mia infanzia, in un piccolo paese, tante parole erano cose; e tante delle cose che erano parole s’appartenevano ai mestieri”.
Difficile sarà tornare indietro, riavere in un paese la vitalità di un tempo. Ma non tutto è perduto. E crediamo sia positivo raccontare ai bambini di oggi, che ricorderanno un’infanzia diversa da quella dei loro genitori e dei loro nonni, migliore sicuramente per certi aspetti e peggiore per altri, cos’erano i mestieri di una volta, spiegargli magari che accanto la loro casa c’era il calzolaio il sarto il pastaio.
Ed ecco la proposta. La scuola di Racalmuto potrebbe, con la collaborazione delle famiglie, allestire in una delle aule vuote (gli alunni anno dopo anno sono sempre meno) del plesso “Gen. Macaluso”, l’Aula dei Mestieri (un gran lavoro è stato fatto anni fa a Montedoro, con le Case museo dedicate ai mestieri scomparsi). E aprirlo ai ragazzi, ai tanti studenti che vengono a Racalmuto per Sciascia. E una volta l’anno – forse il 2 ottobre, la Giornata dedicata ai Nonni – stare lì ad ascoltare qualcuno che parli dell’antica “costellazione dei mestieri”. Ogni scuola lo può fare. La proposta la possono accogliere anche a Grotte, a Canicattì, a Favara, a Castrofilippo, tanto per restare in zona. E se non riusciremo con un museo a scuola a salvare il paese, contribuiremo probabilmente a lasciare un piccolo seme nel vasto terreno dell’infanzia dei nostri figli.
“Parlare dei mestieri, descriverli, analizzarli in sé e in rapporto ad altri, e all’uomo, e alla società, e alla storia mi pare dunque, in quest’ora disumana – scrive Sciascia – un recupero, un riapprodo, l’unico modo possibile per impedire che la sabbia degli anni ricopra un mondo che era di sofferenza, di rancore, di miseria, ma era anche – non trovo parola che, pur vaga, sia quanto questa esatta – di infanzia”.