Palermo, un sabato di maggio del 1992. Ospedale Civico. “Esco dal reparto. E che fu, una guerra mondiale? Mi trovo davanti il vivamaria di volanti della polizia, ambulanze, carabinieri, scorte, tutti a sirene spietate. Un’iradiddio”. Una storia che forse è fantasia, forse è realtà. In presa diretta, i ricordi di un giovane infermiere che quel giorno del 1992 comprese molte cose della sua vita.
Il fatto viene dopo. C’era uno che diceva così, ma allora non lo capivo assai. Il fatto viene dopo. Lo sai che significa? Che le cose succedono solo quando le vieni a sapere tu. Fino a quel momento il fatto è come se non è successo. Il fatto viene dopo. Dopo che lo hai saputo, dopo che ti è arrivata la notizia, insomma. A quel punto, arriva il fatto. E arriva anche tutto il resto.
Vedi che si è accesa la luce. Chi è? Ah, vabbè, il 71, non ti preoccupare è solo e vuole parlare con qualcuno. Aspetta due minuti e lui stesso spegne, quando capisce che non arriva nessuno. E’ un bravo cristiano, ma non ha figli, la moglie è mezza spostata. Che ti dicevo? Ha spento la luce, lui stesso lo capisce.
Dicevamo? Ah, sì: il fatto viene dopo. Che potevo avere, allora? Fammi fare i conti. Era il ’92, no? Manco ventitré anni fatti, ché sono nato il 16 settembre, segno vergine. Non mi chiedere ascendente, non lo so, non me ne fotte niente, queste sono cose di mia moglie che ci perde le nottate. Vabbè, avevo ventitré anni. E avevo pure un lavoro. Tu Palermo manco te la puoi immaginare com’è. Tu non lo sai che per un lavoro la gente si scanna. Perché travagghio non ce n’è, pure che tanti non vogliono fare niente, però comunque c’è scarsezza assai.
Era stato mio suocero a farmi entrare al Civico. Portantino. Ti pare poco. La milionata e passa al mese me la portavo a casa e con la lira magari uno se la passava bene. A noi ci ha rovinato l’euro. Poi io stavo ancora con mio padre e mia madre, non avevo spese, né bollette, né mangiare, né affitto. Mettevo soldi da parte, tanto per farti capire. Mi dovevo sposare all’anno, già tutte cose belle sistemate: la chiesa presa, quella di Santa Maria della Catena che tu non te la puoi immaginare com’è, tutta stile antico, alla Cala, che c’è pure il posto del parcheggio per gli invitati, lì vicino a piazza Marina e di pomeriggio non c’è tanto traffico. Pure il locale fissato, ma quello lo aveva scelto mio suocero che lui aveva tanti amici e pure perché il trattenimento, sì noi lo chiamiamo così, insomma, la cena di ricevimento tocca pagarla al padre della sposa. Un bel ristorante a fondo Anfossi, menù tutto a base di pesce, una cosa che minimo minimo costava settantamila lire a persona che a quei tempi era una cifra, no adesso che con trentacinque euro manco una pizza e una birra.
Vabbè, questo non c’entra. Ma per farti capire che le cose con la mia fidanzata erano avanti: già l’appartamento mio suocero le aveva regalato a Uditore che è non tanto centrale, ma un quartiere di palazzine eleganti, magari nuove, appena costruite. Con Tiziana, si chiamava così la fidanzata, c’eravamo messi insieme a sedici anni io e quindici lei. Per cui, ero diventato di famiglia, come un figlio. Una sera sì e una sera no mangiavo a casa loro e per le feste stavamo tutti assieme, come già sposati. Ti pare esagerato? E’ che sei settentrionale e voi, con rispetto parlando, siete un poco slavati nello stare con le persone. Non dico te, dico in genere. Siete un poco freddi. Per carità: meglio così, ah! Ognuno per casa sua, ognuno per i fatti suoi e almeno c’è più sincerità, perché da noi in Sicilia c’è tanta pumata, tanta schiumazza, ma poi può succedere pure che dentro le stesse famiglie la gente si scippasse gli occhi.
Adesso non mi ricordo il giorno preciso, è passato tanto tempo, ma era sabato. Fine di maggio era. Il 23 dici? Può essere, certo, sempre succede che lo dicono alla televisione. Ma insomma non è importante il giorno. Ascolta a me, non mi fare confondere.
Scusa, un attimo, rispondo al telefono. Pronto? No, questa non è chirurgia vascolare. Ha sbagliato, questo è il reparto urologia. No, da qui non glielo posso passare, signora. Deve fare di nuovo il centralino e chiede di chirurgia vascolare. Sicuro che il medico di guardia ci deve essere, non è possibile che non c’è. Insista, signora. E’ che magari i colleghi non vogliono disturbare il dottore, ma se lei insiste. Va bene, buonanotte.
Vedi, quello è il centralino che sbaglia tutti i numeri. E’ cieco, dici? Ma non è che è sordo, lo sente se uno vuole parlare con chirurgia vascolare o con urologia. Mah…
Insomma, è sabato, il 22, il 23, quello che è. A me quel giorno mi stava finendo il turno, che avevo attaccato mi pare verso le nove del mattino, manco mi ricordo. Magari che quel turno me l’ero fatto mettere apposta, perché pure che stavo lì all’ospedale Civico da soli sei mesi già sapevo con chi mi potevo aiutare io stesso, lo sai come sono, no? Mi ero fatto mettere il turno comodo comodo, giusto per finire verso le quattro, le cinque, passavo da casa, mi facevo una doccia, poi andavo da Tiziana che mi aspettava e in macchina dovevamo andare alla Milicia, a una ventina di chilometri da Palermo, dove che mio suocero doveva sbagnare il villino nuovo. Sbagnare? Come si dice in italiano? Una cena con tutti i parenti e gli amici che mio suocero si era fatto questo villino a mare. L’inaugurazione, esatto! Un posto bellissimo, a mezza collina, con tutta la vista panoramica sul golfo e sul mare. Ci devi andare qualche volta alla Milicia. Non si può spiegare la bellezza, pensa solo che nella zona ci sono villaggi turistici internazionali che vengono da tutto il mondo per stare una settimana là e pagano tremila, quattromila, cinquemila euri a persona.
Manco fatta apposta. Che potevano essere? Le cinque, le cinque e mezza. Tu pensa che già mi ero tolto il camice, i sandali, mi avevo preso le chiavi del motorino per andare via. Esco dal reparto. E che fu, una guerra mondiale? Mi trovo davanti il vivamaria di volanti della polizia, ambulanze, carabinieri, scorte, tutti a sirene spietate. Un’iradiddio. Un bordello. Non si capiva niente. Gente che correva, pistole, grida, voci, elicotteri. L’inferno, ti dico, l’inferno con le fiamme.
Vedi chi è. Ah, il 32, Zanotti, quello alto alto. Domani esce, non ha niente. Magari non riesce a dormire. Aspetta, ora ci andiamo. Aspetta che qui viene il bello della storia.
Mi trovo davanti l’inferno. Io non sapevo niente di quello che era successo a Capaci che avevano fatto saltare mezza autostrada, perché me ne ero stato tutto il pomeriggio a fare la Settimana Enigmistica nello sgabuzzino. Come ti dicevo prima: il fatto viene dopo. Per me il fatto era tutto il bordello di mezza città dentro il Civico che non c’era uno che ragionava. Mi sentivo preso dai turchi, perché magari non c’era manco lo spazio per passare col motorino e già pensavo che dovevo uscire da un’altra parte. Mentre ero fermo come un pupo per capire di che morte dovevo morire, passa uno dei medici del mio reparto – che a quei tempi ero a chirurgia generale – mi riconosce e fa: Gorgone, vieni con me. Senza il tempo di rispondere, mi tira da un braccio. Dottore, che succede? Falcone, lo hanno fatto saltare in aria.
Guarda, quanti anni sono passati? Quattordici, quindici? Guarda, lo vedi? Mentre lo racconto mi viene la pelle d’oca. Guarda il braccio, guarda qui, tutti i peli dritti mi vengono.
Il dottore mi porta dentro dove c’erano Falcone e sua moglie. Tutto sangue e gente che gridava, e dottori che correvano e pure tante persone c’erano, penso colleghi del giudice e poliziotti e magari generali. Pure generali che piangevano. Come fu, mi sono trovato vicino vicino a Falcone. E nel gran bordello che c’era, nessuno mi diceva cosa dovevo fare. E io non avevo esperienza, avevo ventitré anni ed ero portantino. Sono rimasto accanto al giudice, gli ho toccato la mano. Mi pareva che respirava ancora, mi pareva. Ora ti dico una cosa che non ho mai detto a nessuno, manco a mia moglie. Mi vengono le lacrime a pensarci. A me mi pareva che Falcone diceva piano il mio nome: Antonio, Antonio, Antonio. E io, a bassa voce, per non farmi sentire dagli altri, ho detto: Giovanni, sono qui.
Poi ci hanno buttato a tutti fuori. Pure a me. Ma io non ce la facevo ad andare via. E ho dato una mano d’aiuto. Mi sono messo a fare il vigile urbano, perché dentro il Civico non si passava più di quante ambulanze c’erano e volanti e gazzelle e macchine. E tiravamo giù feriti dalle ambulanze, che non so quanti ne sono arrivati. E pure ragazzi, e giovani, tutti ciunnati, tutti feriti. E un generale mi ha messo la mano sulla spalla, alla fine, e mi ha detto grazie. E piangeva.
Vedi che il 32 non suona più. Che ti dicevo? Lo so, Zanotti non può dormire e quando ci sono io chiama, perché ci facciamo due chiacchiere. Stai tranquillo.
No, non è finita. Adesso viene la parte migliore.
Nel gran bordello io non pensai più a Tiziana, a mio suocero e al villino alla Milicia. Niente, l’avevo scancellato preciso. Alle nove, quasi le dieci di sera, mi viene come un lampo. Mi dò una manata in testa: minchia, dico, Tiziana! Mentre cercavo un telefono, mi pare che ancora i telefonini non c’erano, ma sicuro io non ce l’avevo, mi facevo persuaso che sicuro Tiziana l’aveva saputo il fatto di Falcone e che, siccome era sveglia, aveva capito che io ero rimasto bloccato al Civico.
La telefonata fu di venti, che dico?, siennò dieci parole.
Scusa, Tiziana, c’è un casino qui. Hai saputo di Falcone?
Lo sai lei come risponde? E chi se ne fotte di Falcone? Tu che c’entri? Se lo hanno ammazzato vuol dire che se lo meritava.
Minchia, mi gelò il sangue.
Il fatto viene dopo, te la ricordi questa frase?
A me mentre stavo ancora al telefono mi sono venuti davanti tutti i fatti che io non avevo visto fino quel momento: gli amici di mio suocero, come parlavano, come parlava mio suocero, le cose che diceva, come trattava sua moglie, come mi aveva fatto entrare al Civico, come entrava al bar sotto casa, la macchina che aveva, il villino alla Milicia, il capocantiere dell’impresa che gli aveva fatto i lavori, le cose che diceva quando eravamo davanti alla televisione, i maglioni di cachemire, come mi osservava mentre eravamo a cena.
In quel momento, puoi pure non crederci, ma io ho capito che a casa di Tiziana mi consideravano un cretino. Ma no cretino solo io: cretina tutta la mia razza. Cretino mio padre che si era fatto un culo così come fontaniere, cioè idraulico, come dite voi. Cretina mia madre che faceva la commessa in un negozio di abbigliamento per bambini. Tu sei polentone e non lo puoi capire: a casa di Tiziana eravamo tutti cretini perché eravamo lavoratori, gente né ricca né povera, gente che si sudava la giornata. Eravamo cretini perché non avevamo l’annacata. Cos’è? Come te lo spiego? Significa che tu sai che conti qualcosa, e lo fai notare, appena un poco, per fare capire a tutti…insomma, non te lo so spiegare. Uno che si annaca è uno ‘ntiso. Non capisci? Peggio per te, mi dispiace.
Tiziana aveva già riattaccato il telefono. Io sono rimasto dentro al Civico e pensavo a tutte queste cose. Giravo per i reparti, guardavo i poliziotti che piangevano, le ambulanze. Si era messo pure a piovere, e io piangevo perché avevano ammazzato Falcone, perché aveva pronunciato il mio nome, perché Tiziana era figlia di suo padre, perché…non lo so perché.
A me Falcone m’ha fatto lasciare con Tiziana. E fu la mia salvezza, credici. All’inizio avevo paura: pensavo che forse suo padre mi poteva fare ammazzare perché avevo preso in giro la figlia. Ma poi ho capito che per lui era stato un sollievo. Mi considerava vero un cretino e solo per amore di Tiziana, che era figlia unica, mi sopportava. Un giorno, quando ormai ci eravamo lasciati già da due anni, ho visto in televisione che il mio ex suocero lo avevano arrestato. Mi è dispiaciuto, perché era pure gentile e a me non mi aveva fatto niente di male. Dicevano che era mafioso, ma a me mi pareva solo uno troppo presuntuoso. No, presuntuoso a Palermo significa un’altra cosa, è troppo difficile da capire per te che sei nordico.
Finita la storia con Tiziana, me ne sono andato da Palermo. Prima a Milano, e da sei anni qui a Verona. Mi trovo bene. E poi ho conosciuto mia moglie, Fotina: è rumena. Sì abbiamo un bambino, di quattro anni. Ti faccio vedere la foto: grazioso, vero?
Perché ti ho raccontato questa storia? Boh. Anzi, lo so: il calendario attaccato al muro. Domani è il 23 maggio. Manco me ne ero accorto prima. Come sempre, il fatto viene dopo.
Ancora Zanotti. Quello vuole parlare. Ma io sono troppo stanco. Fai una cosa: vacci tu e gli dici che sto riposando. E’ una persona educata, sicuro non insiste. Io intanto mi fumo una sigaretta. Non essere il solito polentone: lo so che è vietato, ma sono le tre del mattino chi se ne accorge? E lasciami campare! Io il turno di notte con te non lo faccio più: non capisci mai niente. Vai. Vai. Vai da Zanotti. Vai a lavorare. Qualcuno deve pure farlo.
Dal mensile “I love Sicilia” del maggio 2007