Sto vivendo una pagina di storia ed è per questo che decido di lasciare un segno scrivendo la mia testimonianza
Sto vivendo una pagina di storia ed è per questo che decido di lasciare un segno scrivendo la mia testimonianza. Approfitto della fila. Prendo dalla tasca dei pantaloni lo smartphone. Dietro di me due amiche sessantenni, alle prese con dei moduli da compilare prima della vaccinazione, parlano e parlano. Si esprimono in siciliano. Lo capisco perché anche io sono siciliano e perché anche io parlo spesso in siciliano, anche mischiato all’italiano.
“Chi ci mettu? Ccà m’addumannanu si haiu malatii…”
“Iu ci haiu la prissioni alta. Unn’è ca l’ha scriviri?”
“Talè, iu trasu e poi mi fazzu interrogari. Mi cunfunnivu”.
Siamo in fila, che si ingrossa di minuto in minuto. Ma non c’è confusione. In tanti chiedono un modulo in bianco che io compilo al volo con i miei dati anagrafici e spuntando le caselle che posso spuntare, dichiarando le malattie che ho, che penso di avere, ma non i timori. Quelli no. Non emergono. Non mi vengono chiesti. Salto pure la lettura delle pagine dei possibili effetti collaterali. Non posso farmi impressionare. Non leggo neanche le controindicazioni delle supposte di paracetamolo per la febbre a 36 e qualche linea, altrimenti è finita.
“Speriamo che vada tutto bene”, dice una signora a un’altra signora che riconosce.
“Vinni all’ottu di stamatina e c’era l’opira e mi nni jivu. E ora sugnu arrè ccà!”.
Sono deciso, col mio modulo già pronto e arrotolato che infilo nel taschino della camicia rosso western.
È arrivato finalmente il mio turno in un giorno in cui si registrano ancora morti e nuovi contagi. Ma non con le cifre spaventose delle settimane precedenti. Il primo caldo estivo comincia a estendere i propri effetti collaterali contro le presenze virali.
“Che vaccino c’è? Lo fate il Faizer” chiede una signora al personale che sta fuori a vigilare che tutto proceda bene e che si rispettino le distanze tra una persona e un’altra.
“No, è finito. Lo attendiamo”.
“E il Moderna?”
“Abbiamo solo AstraZeneca.”
“E allora ritorno un altro giorno.”
Ascolto. Scrivo. Batto con i polpastrelli dei miei pollici sulla mini tastiera del cellulare. Qualcuno mi prenderà sicuramente per un alienato.
“Altri due!”
Mi fanno entrare in un edificio assieme a una persona che non conosco.
“Prego, la seconda sedia.”
Mi accomodo in una sala d’attesa, dopo essere stato fuori in una rampa d’attesa. La gente parla, discute, solo di Covid, solo di vaccino, come da un anno. Non ad alta voce.
Siamo sempre ben distanziati ed educati. Nessuno protesta. Si attende pazientemente.
“Prego!”
Un’infermiera invita una signora a entrare. Ma non entra, lascia passare un signore che sembra il marito o comunque un uomo a lei vicino vista la confidenza.
C’è chi è in compagnia, chi è solo. Io sono solo. Ho deciso di andare solo.
“Aspettami, che vengo con te”, mi ha chiesto mia moglie già vaccinata e che per qualche giorno è stata a letto per gli effetti collaterali del Faizer che tutti preferiscono all’AstraZeneca forse per altre medicine di colore blu. Non so, è un mio pensiero che non mi permetto di esprimere (“Scusi, lei, per caso è un assuntore della pillola blu?”)
Digito e invio a mia moglie un messaggio confortante:
“Tocca a me. Vado a morire!”
Chiamano altre persone per entrare nella sala punture. Le sedie libere vengono occupate dalle signore che parlavano in siciliano e che si debbono fare interrogare dai medici per elencare tutte le malattie presenti, passate e future del loro sensibile corpo. Accettano però di vaccinarsi con AstraZeneca, vaccino che è stato per mesi crocifisso, per mesi additato come assassino, per giorni pure sospeso sotto la spinta dell’opinione pubblica allarmata dalle continue notizie di decessi sospetti. Ne ho letta una che mi ha fatto sorridere.
“È morto il signor X. Sì era fatto il vaccino due mesi fa”.
Il nesso è stato accertato? Si è atteso il risultato dell’autopsia prima di dare la colpa?
Siamo stati terrorizzati da notizie del genere che hanno portato in tanti a rifiutare l’AstraZeneca e ad aspettare il vaccino di cui hanno sentito parlare bene, di cui non hanno letto notizie negative.
Sta per arrivare il mio turno. La persona prima di me è entrata nella sala vaccinazioni. Tutto è organizzato bene. Ognuno sa quello che deve fare e lo fa. Per me è solo questione di qualche minuto. Sono pronto a sollevarmi dalla sedia come Mennea prima dello storico scatto alla partenza del suo record nei 200 metri.
Vedo uscire vaccinati che salutano e mi emoziono, veramente. Avverto l’importanza del momento, durante un’emergenza che ha già tenuto il mondo bloccato per un anno. C’è gente che ha chiuso e non ha più riaperto. C’è gente preoccupata per il proprio futuro. Ricordo ancora i primi giorni del 2020 con le strade deserte, il primo incredibile lockdown, quando sentivo la voce degli uccelli e il profumo del mare, quando andavo in ufficio con la mascherina da carpentiere e non con le più sofisticate FFP2 che sono venute dopo.
“Prego, si accomodi”.
Il dito ora punta me. È arrivato il mio turno. Mi indicano una sala. Ci sono due tavolini con due giovani sanitari, un uomo e una donna. Mi tocca l’uomo. Mi chiede quanti anni ho, se è la prima dose, se sono sicuro di non avere patologie.
“Non mi risulta, dottore. Almeno non penso di avere le patologie che sono segnate nel modulo. Ho altre camurrie ma non so se …”
“Speriamo”
Mi dice proprio così: speriamo. Perché non è che ho fatto un esame approfondito per capire se ho qualcosa che al vaccino non piace. Panini con la meusa non ne mangio da mesi e mesi. Ogni tanto mi permetto qualche panino con le panelle quando sento forte l’odore che mi trascina a sé.
Il dottore mi chiede la tessera sanitaria; controlla il modulo da me firmato, foglio dopo foglio, mette qualche firma e mi indica la porta alle mie spalle.
“Vada!”
Intravedo un uomo seduto su una poltroncina azzurra.
“Finito!”
Si alza. Si sistema. Entro.
“Buonasera”.
C’è un’infermiera che mi accoglie con un modo molto gentile e che mi chiede:
“Braccio destro o braccio sinistro?”
“Non ho preferenze. Scelga lei. Mi affido a voi della Sanità Pubblica, così come mi affido alla Scienza.”
“Allora il braccio destro.”
Lo preparo. Lo denudo. L’infermiera non perde tempo.
“Ma come fate? Passare da un paziente a un altro… uno va e uno viene? Non vi esaurite?”
“È il nostro lavoro. Dobbiamo andare veloci.”
Mi siedo sulla poltroncina azzurra. Mi rilasso. Attendo la siringa al braccio. Non guardo. Ma sento. Sento l’odore dell’alcol. Sento il cotone che mi strofina la pelle. Sta per arrivare l’ago con la mia prima e desiderata dose di vaccino.
“Finito! Si può alzare.”
“Come finito?”
Da non credere. Non ho sentito nulla.
“Fatto?”
“Sì, si può alzare”.
“Complimenti. Non ho sentito nulla”
“Grazie!”
L’infermiera mi mette un cerotto e mi invita a fare spazio a un altro paziente da vaccinare. Rivesto il braccio destro e passo in un’altra stanza per completare la procedura amministrativa. Incontro sempre gentilezza. Mi fanno accomodare. Mi dicono di ritornare a luglio per la seconda dose. Chiedo di nuovo il giorno.
“Le è arrivato tutto per Sms. Adesso!”
“Sì, ha ragione. Grazie. Grazie.”
Mi alzo e non mi fanno uscire ancora dall’edificio. Mi fanno riaccomodare nella stessa sala d’attesa, ma dalla parte opposta.
“Stia qui almeno un quarto d’ora”.
Non mi dicono perché ma capisco per motivi di precauzione: se il siero dovesse farmi male sarei subito soccorso. Ne approfitto per riposare e per finire questa mia pagina di storia mentre sento il siero invadermi e il battito del cuore accelerare. E non capisco se è l’effetto collaterale di AstraZeneca o l’effetto di aver vissuto e scritto di un’esperienza storica mentre si svolgeva.
Nel frattempo è trascorsa mezz’ora. Mi alzo, saluto e vado via.
Mi segno la data: 15 maggio 2021. Così se dovesse accadere qualcosa a partire da domani si potrà scrivere: “Un giorno prima si era fatto il vaccino”, oppure “Una settimana prima si era fatto…”, o ancora meglio “Appena due mesi prima…”, anche se, da autore del libro Ti tocca anche se ti tocchi, preferirei: “È deceduto Raimondo Moncada, settant’anni fa si era fatto il vaccino”.
Riuscirò ad arrivare sano e salvo alla seconda dose.