Se in una notte di mezza estate torna in mente la parola “veron”
“Venerando c’è ancora e, se rileggiamo i suoi scritti, vive insieme a noi”
Ci sono frammenti, sparsi nel cielo oltre le nuvole, di qualcosa di più grande, e di molto, che inaspettatamente affiorano alla memoria, trovando incastri autonomi e inspiegabili: che sfuggono alla ragione.
Nozioni di qualsiasi genere, tranci di letture, squarci di poesie, delle quali magari non si ricorda il titolo o l’autore né il tempo del loro apprendimento, ma sicuramente nelle scuole basse, come si chiamavano una volta le elementari, palestre di esercizi mnemonici.
Capita altrettanto che una parola, un’espressione priva del suo originario contesto, torni, sempre in momenti imprevedibili, senza un perché. Ma se questo continuo ritornare diviene quasi ossessivo vuol dire, senza pensare ad altro ma per credere almeno alla smorfia, che qualche arcano messaggio proveniente da mondi paralleli e sconosciuti, da vorticosi ed inesplorati abissi, ci vuol raggiungere per portarci magari ad altro pensiero, in una vertigine di immagini e parole che si combinano aleatoriamente tra di loro: visioni notturne mescolate alla proiezione rotante di un calcolo combinatorio in corso, che nulla dà di risolutivo.
E torna in mente, anche in queste notti di mezza estate, la parola “ veron” e poi se ci si lascia andare, non opponendo resistenza alcuna, ecco affiorare i primi versi di una vaga cadenzata poesia: “E’ fosco l’aere, il cielo e’ muto,/ed io sul tacito veron seduto”.
Una malinconica patriottica poesia di Arnaldo Fusinato imparata a memoria, com’era in uso, alle elementari. E proprio quel termine, inusuale, per me arcano, una sorta di abracadabra me l’ha resa indelebile.
Fantasticavo di quel “veron”, di quel terrazzino, quel parterra: di come doveva essere, se c’erano vasi di fiori, magari di gerani e di garofani, gelsomini odorosi e bocche di leone, qual era il suo affaccio, la profondità del rimirare: il panorama, certo che però doveva per forza essere silenzioso, acconcio alla meditazione, proprio un buon retiro dell’anima.
Così dovendone realizzare uno, forse per un moto di coscienza nascosta, lo feci costruire tale e quale a quello che da bambino avevo visto con gli occhi sognanti, mentre a fior di labbra ripetevo i versi: il mio “veron”.
Sulle pendici del colle che si specchia nell’altro versante dove sta pigramente sdraiato il paese, alberi che discendono fino al torrente e poi risalgono, fino a diradarsi, lasciando spazio a campi di grano, a parafuochi, fino ad incontrare le prime case, a valle, ingrigite dallo sferzare del vento di tramontana.
Poi a dritta, un rincorrersi sinuoso di valli e colli, fino a giungere, avendone l’occhio, il mare che dal cielo si distingue per una piú intensa sfumatura di colore.
Ma la notte, il buio della notte, oblitera le distanze e travisa i luoghi, sì che a stender la mano il paese, le luci del paese, che sembrano nella rarefazione dell’aria le luminarie di una festa, si possono davvero toccare con mano.
Ed é proprio di questa notte senza stelle, che il cielo fa quasi precipitare, a veder quel filare di luci, mi affiora il ricordo del racconto di una storia lontana, dell’epoca del mito del mio paese, di storie e scene di caccia che riempivano le ore preserali trascorse al circolo, pieno di sospiri per fantasiosi aneddoti venatori, abilmente cavati a mendaci narratori da astuti conversatori, che ben conoscevano, meglio e più di un inquisitore, l’arte della maieutica, costringendo gli altri a soffocare sul nascere un malcelato sghignazzo.
Erano furetti che per abilità se ne infischiavano proprio di Javert, cani dai quali Phillips Vance poteva andar a lezione, pecore, si perché nella caccia c’era sempre una sosta dai pastori per mangiare la ricotta caldissima, che erano della stessa stazza di quelle che Polifemo teneva nella sua spelonca: il mito appunto.
Ed il notaio del paese, così come lo descrive, chi ancora ne ha ricordo, da giovane, per usare un’espressione risorgimentale, visto il tono dell’introduzione, é tale che mi appare congruo definirlo “folgorante in solio “, visti anche la varietà di uffici pubblici ricoperti, che però l’anzianità d’anagrafe tramutó in un vecchio che sebbene arzillo certe volte diventava oggetto di motteggio.
Amante della caccia, che tale passione si portó fino alla fine dei suoi giorni.
Certo le battute, di un’intera giornata, alle quali partecipava erano sempre più rare ed in queste si accompagnava con giovani di pronta arguzia.
Era ormai buio e i cacciatori giunsero proprio lí nei pressi del mio buen retiro, l’aria frizzantina di quella sera d’ottobre era mossa da una leggera brezza che scuoteva, facendole vibrare, le cime degli alberi dove ancora stavano le ultime tenaci foglie, tanto da avere la sensazione di udire l’infrangersi di una leggera risacca.
Un brivido leggero gli corse lungo la schiena e volse lo sguardo in un punto indefinito dove brillavano fiocamente, avvolte da una leggera nebbiolina, le lampade a pera dell’illuminazione pubblica del paese, che però minimamente non riconobbe.
Cos’è quello?– esclamò perplesso.
Il Rex, notaio – rispose faceto e d’impeto uno degli accompagnatori – orgoglio della cantieristica navale italiana, diretto al porto di New York-.
Magnificenza,– esclamó commosso il notaio, cavandosi il cappello.
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