Fondato a Racalmuto nel 1980

Il matto in camicia rossa

Il racconto di Savatteri. Da un documento inedito, da un manoscritto ritrovato a Parigi, parte questa storia alternativa dello sbarco di Garibaldi in Sicilia.

Gaetano Savatteri

Tre notti in un albergo di rue Vivienne, ventitré cafè ou lait nei bistrot di boulevard Monmartre e un’asperrima litigata all’uscita della metro di place de l’Opera, mi convinsero che le parigine non facevano per me: sicuramente non quella parigina, Annie Marie Galli, che pure aveva caviglie sottili, passo deciso e occhi troppo veloci per starle dietro. Infatti se ne andò via, lasciandomi un pacco aperto di Gitanes gialle, alcuni rimpianti e una copia del manoscritto di un suo bisnonno o trisavolo.

Il giorno dopo me ne andai anch’io, via da Parigi, abbandonandovi rimediabili rammarichi, tredici infumabili Gitanes gialle e alcune copie di Liberation. Ebbi cura di portare con me il manoscritto. In realtà, il viaggio a Parigi, tralasciando Annie Marie e il conto dell’albergo, appariva fruttuoso: il documento era firmato da un tale Jean-Claude Galli, che era stato uno dei “negri” di Alexandre Dumas (padre, s’intende).

Tornato a Palermo, per completare il mio dottorato di ricerca presso la cattedra di letteratura francese, scoprii che al mio professore ormai non importava più nulla né di Dumas né della letteratura francese perché si era fatto convincere a candidarsi per non so quale parlamento – siciliano, italiano o europeo – sprofondando in una vertigine di exit poll, proiezioni, grafici e alleanze che non gli consentiva più di distinguere il Conte di Montecristo dal presidente Raffaele Lombardo.

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Quel poco che so su Jean Claude Galli (accentato alla francese, ça va san dire) mi era stato raccontato da Annie Marie, prima della catastrofe alla metro di place de l’Opera: l’avo parlava italiano, lavorava in un giornale parigino, a stento campava una famiglia numerosa. Doveva essere addirittura siciliano, esiliato in Francia dopo il 1848, e lì era rimasto.

Dumas, che si serviva di lui come di molti altri per raccogliere materiale e per scrivere intere parti dei suoi romanzi, nel 1862 o nel 1863, lo spedì a Palermo, forse mentre stava per mettere mano alla biografia di Giuseppe Garibaldi. Galli, sempre su indicazione di Dumas, andò alla Real Casa dei Matti, quel manicomio che Alexandre Dumas aveva visitato quando ancora lo gestiva, a modo suo, il barone Pisani, lo stesso che usava firmarsi come “il primo matto di Sicilia”.

Nel giardino del manicomio o in uno dei saloni, Galli probabilmente incontrò il garibaldino di cui parlano, per accenni, nelle loro memorie, Giuseppe Cesare Abba, Giuseppe Bandi e lo stesso generale Garibaldi: il giovane che per due volte si lanciò in mare durante la navigazione da Quarto a Marsala, il medesimo che lungo la strada per Salemi minacciò di tagliare la gola a un suo compagno di avventura, avendolo scambiato per un soldato borbonico.

Questo è il resoconto, in italiano (sic), così come riportato dal trisavolo di Annie Marie (a proposito, vorrei chiederle se ricorda ancora quelle tre notti in rue Vivienne. Io a volte le ricordo).

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“Questa cammisa rossa, questa che mi vedete con gli strappi e le macchie di parmigiana di melanzane, di ragù di carne, di merda di cane, di acqua mediterranea, di terra pianto e lagrime, egregio amico, questa è la mia bandiera e la mia cammisa di forza. Me la misero addosso a Salemi, dove le fimmine del paese tagliarono e cucirono a metri stoffa rossa e rasposa per confezionare le nostre casacche, scrivendo così la nostra purpurea leggenda.

Adesso voi venite da lontano, dite che venite da Parigi, che non conosco ma che immagino di strade lastricate e di picciottelle che camminano sole per via e parlano una lingua che poco capisco, ma capisco che mi fa arrizzare quel loro modo rotondo di parlare nelle orecchie che sembra soffio di gatta sotto la pioggia. Insomma, venite da lì e volete sapere come fui tra quei mille, e me li chiamate valorosi e patrioti, eroi e martiri.

E va bene. Se questo vi piace l’avrete, tanto che me ne fotte, da qua dove sono rinchiuso. Dicono che fuori da qui hanno fatto l’Italia, e siamo tutti una cosa sola, tranne il papa che invece se ne sta a Roma ma prima o poi qualcuno arriva, rompe un muro ed entra nella città eterna e così non se ne parla più e la facciamo finita con questa storia di generali e soldati, poeti e trombettieri, lapidi di marmo e piazze di paese.

Sentite, egregio amico, io posso dirvi solo questo: un mio cugino, incontrato ad Alessandria, dove mi ero rassegnato a fare il panettiere, tra la nebbia e quei campi piatti che assimigliano al mare, mi disse che c’erano due navi a Genova che partivano per la Sicilia e non serviva né biglietto né documento. Io me ne ero andato dal paese mio dopo che avevo messo nei guai una vicina di casa di quattordici anni, ladia come la peste ma che a toccarla le scottava la pelle. Sedici anni avevo, e quando mi dissero che mi dovevo sposare piuttosto me ne andai a Palermo e mi imbarcai su un mercantile che mi fece conoscere i porti e le buttane di Barcellona, di Cadice, di Costantinopoli, di Marsiglia, di Gibilterra, di Tunisi, di Venezia e di altre città di cui manco mi ricordo i nomi, ma parevano tutte la stessa cosa: un molo, quattro case vecchie, due chiese, vino cattivo e i letti sfatti dei bordelli dove già erano passati tutti i miei compagni, ché a me essendo il più giovane mi toccava sempre di entrare ultimo.

Insomma, ad Alessandria facevo il panettiere e non ne potevo più di mangiare riso e infornare pane. Presi le mie cose e seguii mio cugino che mi parlava di cose che non capivo: l’Italia e gli italiani, Dante Alighieri e Giuseppe Mazzini, il Guerrazzi e il Foscolo, Vittorio Emanuele e Cavour. Ma a me che me ne fotteva? Al paese volevo tornare, magari di notte, magari solo per sapere se mio padre e mia madre erano ancora vivi, magari per sapere se avevamo ancora quel giro di terra dalle parti del cimitero che uno poteva piantarci quattro mandorli e tre olivi e campare così, tra gente che parlava la stessa lingua tua.

A Quarto persi di vista mio cugino, nella folla di gente che rideva e scherzava, qualcuno sudava freddo e tanti facevano finta di sapere tenere in spalla un fucile che si vedeva da lontano che fino a quel giorno avevano solo sucato inchiostro e letto libri stampati. “Sei siciliano? Allora sei un valoroso”, mi disse il generale. “Come vuole voscenza”, risposi, senza capire nemmeno il perché tutti parlavano piano accanto a quel marinaio biondo che a me pareva troppo vecchio per saperci condurre per mare fino in Sicilia. Ma avevo poco più di vent’anni e tutti mi parevano vecchi e tutti mi parevano sbannuti, tutti quelli che salivano sui due piroscafi. Io al mio paese volevo tornare, ma tutta la notte mi atturrarono la testa con le canzoni, con la bella gigogin, con la patria e con la libertà e non ci fu verso di dormire, tanto che mi rifugiai a prua, dove non c’era nessuno. Pigliato sonno, già mi vedevo entrare al mio paese, davanti alla porta di casa mia, con la candela accesa perché mi aspettavano, quando una botta in testa mi ruppe il cranio.

Non ho mai saputo che fu, penso a una cima saltata, a un gancio, a un bottaccio, insomma a qualcosa di duro. Sentii il sangue che colava dalla tempia. Mi sembrava ancora di dormire, e nello stesso tempo di essere sveglio. Vedevo adesso il piroscafo, quei quattro sdisonorati che cantavano, qualcuno scriveva già le sue memorie, altri osservavano il cielo scarso di stelle. E il sogno si fece chiaro e mi sembrò di capire tutto, come mai avevo capito fino ad allora: ritrovai ogni carezza di buttana, ogni bicchiere di vino da osteria, ogni bàsola dei porti. Ritrovai le cose passate e quelle a venire. Guardavo uno e capivo: quello lì, ad esempio, lo vedevo chiaro e morto nella campagna di Pianto Romano. Quell’altro, un ungherese, lo immaginavo in agonia in un lettuccio di Palermo. E di ciascuno, e di tutti noi mille, intravedevo la luce e lo scuro del futuro: un bagliore, una piazza di paese, una foto in un museo, una lapide su un palazzo, un monumento a cavallo.

Leggevo nel futuro lapidi sui muri e nomi di strade: qui riposò, qui dormì, qui rilassò le stanche membra, qui firmò un editto, qui si affacciò a un balcone. Garibaldi a cavallo, Garibaldi a piedi, Garibaldi ferito a una gamba, Garibaldi che comanda, che comanda il battaglion. Nella mia testa c’era Bixio che fucilava quattro contadini, un altro che diventava senatore, un altro che rubava, un altro che faceva affari. E vedevo l’Italia che stavamo andando a fare, e capivo che non tutti la volevano quell’Italia, non come la si stava andando a fare noialtri, non come avevano deciso di farla un re piemontese e il suo ministro, un diplomatico inglese e i suoi agenti segreti. Nella mia testa sanguinante passavano le facce di ministri e patrioti, e di ciascuno risaltava ogni gesto più meschino e triste, più vile e traditore.

Mi buttai a mare. Non ci volevo andare in Sicilia, non ci volevo andare più. Ad Alessandria volevo tornare, a fare pane e a mangiare riso. Mi ripescarono. Ci riprovai, ma eravamo già a Marsala. Volevo dirlo a tutti, e lo dicevo: “Facciamola diversa quest’Italia, facciamola diversa”. Ma nessuno mi ascoltava, ché per tutti ero il matto dei Mille. Sulla strada per Salemi cercai di fermarli ancora, ero pronto a macchiarmi di sangue, a rendere quell’avventura per quel che era, una minchiata di ambiziosi e di pazzi: mi fermarono prima che tagliassi la gola a un vecchio patriota emiliano. Era un azzardo, ma avrei dato tempo ai borbonici di fermarci, giusto per guadagnare qualche anno in più, giusto per dare il tempo ai mie paesani, ai siciliani, di volerla davvero quest’Italia, con amore e giustizia, con passione e diritto. Ma così non fu. Perché anche i borbonici erano parte del gioco, nel gioco della loro disfatta. 

A Salemi si dimenticarono di me, mi lasciarono in cammisa rossa a guardia di un carcere vuoto, e la notte dormivo dentro la cella. E dopo la caduta di Palermo, mi portarono in trionfo come eroe garibaldino, ma non volevo essere eroe. Mi levavo la cammisa rossa, e le vecchie me ne cucivano un’altra, me la mettevano addosso. Eroe ero e dovevo restare. Ma lapidi non ne volevo, né statue, né volevo lasciare reliquie di museo. Manco a un cane dissi il mio nome, me lo ripetevo solo, di notte, per non dimenticarlo. E di notte me ne scappai per Palermo, e quando vi arrivai, finalmente, già non ne volevano sapere più nulla di garibaldini e di Garibaldi, di plebisciti e di patria: mi presero per pazzo e mi rinchiusero qui.

E finalmente qui siamo tutti eroi, veri eroi: vede, egregio amico, quello è Napoleone, e quell’altro è Giulio Cesare e io sono diventato Giuseppe Garibaldi. Io che non volevo nemmeno una lapide con il mio nome, adesso sono destinato ad averne, con il mio nome da matto, per tutte le piazze e le strade di quest’Italia che non volevo fare, che non volevo fare così come è venuta”.

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