Storie. Federico II, la scuola poetica siciliana e la produzione letteraria nata alla corte dell’imperatore
Il primo a occuparsene e a scriverne fu il sommo poeta nel suo De vulgari eloquentia. Successivamente, sulla scorta delle autorevolissime impressioni dantesche fu il Petrarca in Trionfo d’amore ed Epistolae familiares a tesserne le lodi, dichiarandone la fondamentale importanza letteraria.
Già nel ‘300, dunque, appariva chiaro che alla corte palermitana dell’imperatore svevo Federico II stava cominciando a prendere forma e consistenza quel flusso intellettuale che da lì a poco costituirà il corpus letterario che avrebbe per sempre cambiato i canoni di scrittura e le strutture metriche di riferimento, nonché definito la nascita stessa di figure universali uniche. Alla corte dello Stupor mundi nacque la letteratura italiana e con essa si eressero le basi dell’intera cultura occidentale, fondamenta che fino a oggi hanno contraddistinto la “letteratura siciliana” come uno dei punti di riferimento culturali riconosciuti a livello mondiale.
Tale genesi letteraria si avvia contemporaneamente a quello che tutti i più autorevoli storici considerano il “primo stato moderno d’Europa”. Acume politico e sensibilità intellettuale, invero, hanno fatto di Federico II il primo vero mecenate dell’epoca post-classica, colui che ha ospitato intellettuali provenienti dalle latitudini più diverse, lusingandoli e ammaliandoli con i fasti della sua corte imperiale e con gli spettacoli scenici più sontuosi tra quelli organizzati presso le più importanti reggie europee dell’epoca, creando in tal modo il primo “villaggio globale” ante litteram. Ebbe curiosità e interessi che lo portarono, in modo del tutto naturale, a scrivere liriche d’amore, a occuparsi di opere inerenti le scienze positive e a redigere egli stesso un trattato sulla falconeria (il De arte venandi cum avibus), che tanta fortuna ebbe nell’Europa del Medioevo.
Se non si tengono in considerazione lo spessore e il ruolo culturale di Federico II, non possono essere apprese in pieno le dinamiche politiche e le connotazioni letterarie che portarono la corte di Palermo a essere nel XIII secolo il centro della cultura europea e, dunque, del mondo intero. E tale nevralgico centro culturale è costituito da quella che è conosciuta come la “Scuola poetica siciliana”, che con la sua produzione, per la prima volta nella nascente letteratura italiana, stabilisce un inedito “impiego” della poesia – in termini di concezione della relativa poetica – come attività fondamentalmente intellettuale ma non fine a se stessa, in cui l’esito formale e la pura arte del cadenzare in rima e del ritmare in versi vennero concepiti come funzionali all’esaltazione di ogni esigenza lirica.
Federico II elaborò e per primo perseguì, in anni di totale teocrazia, una politica di autonomia dalle gerarchie della Chiesa (posizione che gli costò infatti ben due scomuniche, nel 1227 e nel 1228) e quindi d’indipendenza culturale dalle curie. Adottò per questo motivo il thema delle liriche trobadoriche, tipiche delle terre di lingua d’Oc del sud della Francia, poiché “rappresentava la tradizione volgare laica più prestigiosa, sorta in alternativa a quella ecclesiastica”. In un tale contesto, gli argomenti trattati dalla “Scuola” siciliana sono stati sin dall’inizio quelli delineati dalle liriche provenzali, riguardanti l’amor cortese come gesto di dipendenza dalla donna tacitamente amata (la Madonna, da mea domina, ovvero “mia signora”).
Ma se la poesia transalpina fu il primo parametro di riferimento della Scuola poetica siciliana, in quest’ultima, sin dall’inizio della sua produzione lirica, furono però evidenti alcune caratterizzazioni tipiche (e inedite) della corte federiciana, tanto da farne una nuova Schola e creare – per la prima volta nella nostra tradizione letteraria – una lingua e una forma lirica di elevata ricercatezza e aulica eleganza, intrecciando l’intera produzione con profonde meditazioni intellettuali sulla natura. Autori celeberrimi come Giacomo da Lentini o Ciullo d’Alcamo (l’autore di Rosa fresca aulentissima), imposero alle loro opere un formalismo puro che plasmò nella “rima siciliana”, riconosciuta e incensata da Dante, una lingua dal costrutto raffinato, tanto da essere dotata di una “patina di decoro formale decisiva per la sua stessa affermazione in Toscana”. La metrica della Scuola siciliana, inoltre, ha impresso un valore unico e un carattere tipico alle liriche licenziate dagli innumerevoli autori della corte palermitana. Vennero concepite, infatti, canzoni – genere poetico sommo (curiale) per eccellenza – che trattavano il tema amoroso, canzonette, per rendere solenni i dialoghi in prima persona, ma soprattutto sonetti – espressione metrica addirittura concepita in Sicilia, probabilmente da Giacomo da Lentini – con cui si intessevano discussioni dottrinali o descrittive.
L’importanza della produzione letteraria nata alla corte di Federico II non deve però farne trascurare al lettore una peculiarità fondamentale: la poetica della Scuola siciliana ha sì reso sempre omaggio alle tipiche tematiche provenzali del fine amor, ma mai in maniera esclusiva, non tralasciando al tempo stesso le rappresentazioni della “realtà effettuale delle cose” che permettevano ai poeti d’ancorarsi alla quotidianità medioevale in terra di Sicilia, in tal modo percependo la silloge poetica come un essenziale sostegno con cui tentare di superare le tante difficoltà del vivere, che molto spesso in quegli anni era un vero e proprio sopravvivere.