Mi piacerebbe passare alla storia come l’inventore dell’augurometro
Mi piacerebbe passare alla storia come l’inventore dell’augurometro. L’idea mi è venuta durante la valanga di auguri per il Natale, per la sua vigilia e la sua antivigilia: “Serenità, pace, benessere”. E ora, a ridosso del Capodanno, della sua vigilia e della sua antivigilia, la stessa idea mi si presenta come ineludibile. “La devi subito concretizzare!” mi ha detto la vocina interiore.
Quanti auguri vengono formulati in tali, sentite, occasioni sia in Italia che nel resto del mondo? E soprattutto: quanti e quali auguri si avverano dopo la loro formulazione?
Sono queste le domande che necessitano una risposta precisa, specialmente in un’era, quella della super tecnologia, quella dell’intelligenza artificiale, quella dei robot di mamma Matrix che stanno sostituendo gli uomini, nella quale abbiamo a portata di mano ogni dato su tutto: l’incidenza dei non vaccinati che non credono al Covid nella saturazione dei reparti Covid degli ospedali; la previsione di spesa al centesimo di euro degli italiani sui regali, sui cenoni e sulle vacanze di Natale saltate a causa del virus; l’evoluzione dei costi per la realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina dallo sbarco in Sicilia di Giuseppe Garibaldi ad oggi. Misuriamo tutto, prevediamo tutto, tranne l’efficacia degli auguri.
Ma servono a qualcosa? E se una persona non volesse augurato niente? Per quale motivo, in quest’ultimo caso, dovrebbe subire la violenza uraganica degli auguri che gli arrivano sotto varie forme per Whatsapp che ha annientato ogni altro mezzo di contatto augurale come una telefonata, un Sms, un’email, una cartolina, un pizzino sotto la porta?
Se fai parte di gruppi con quantità industriale di contatti e non stacchi la suoneria o la vibrazione, il tuo cervello sarà martellato per tre giorni, per l’antivigilia, la vigilia e il Capodanno, dagli inarrestabili messaggi di augurio ai quali sarai costretto a rispondere perché in caso contrario saresti preso per “gran vastaso” o per “uno che se la tira” o per un asociale o per un indifferente.
Ma farsi gli auguri serve a qualcosa? Trascorrere ore e ore a formulare l’augurio o a rispondere all’augurio della vicina di casa del nostro ex vicino di casa, vale il tempo cognitivo, neuronale, emotivo, affettivo, dedicato?
“Che il nuovo anno ti porti salute e prosperità!”
“Auguri anche a te”.
“Solo a me?”
“No, naturalmente a te e famiglia!”
Auguriamo di tutto, ma soprattutto salute e prosperità, per stare bene con se stessi e con gli altri, lavorare, guadagnare, vincere dieci milioni al Superenalotto, vincere un euro alla tombola battendo le zie e gli zii, i nonni e le nonne dopo una notte di movimento di lenticchie e di fagioli su cartelle di plastica o di carta riciclabili. Ma quanto è realizzabile degli auguri rivolti? E quanto si realizza?
Ecco l’importanza che avrebbe la messa a punto di uno strumento dotato dei più sofisticati software informatici: l’augurometro. Uno strumento che dovrebbe raccogliere tutti gli auguri formulati ormai digitalmente e alla fine dell’anno farci il conto, riscontrando con nanometrica esattezza l’augurato con il realizzato.
Ma a cosa servirebbe? A qualcuno potrebbe servire. In caso di esito per niente favorevole dell’augurometro, si potrebbero usare i dati scientifici per bloccare chi ci vorrebbe a tutti i costi fare gli auguri (penso a chi ogni anno riceve una caterva di auguri per trovare l’amore della vita e si ritrova sempre solo e sconsolato; penso a chi ha avuto augurata tanta salute e si ritrova a combattere contro una grave malattia; penso a chi ha avuto augurata ricchezza e si è ritrovato fallito; penso a chi ha avuto augurata la felicità e si è ritrovato alla fine dell’anno senza un caro affetto).
Se l’ipotesi di una bassissima percentuale di realizzabilità degli auguri dovesse un giorno essere decretata da un qualsiasi strumento scientifico, sono sicuro che continueremmo lo stesso ad augurare sempre il bene, sempre il meglio agli altri, alla nostra famiglia, agli amici, a chi ci sta intorno, a chi conosciamo, a chi ci fa simpatia a chi “è meglio mandargli per sì e per no un messaggio di auguri che non si sa mai nella vita”. E chi se ne frega della scienza, dei numeri, delle probabilità, della fattibilità, della statistica, di fronte all’affetto smisurato. Perché alla fine fare gli auguri (personalizzati e non a pioggia o con i penetranti automatismi informatici o con gli “inoltra”) è un atto d’amore, e gli atti d’amore sono così profondi che non riusciremo mai a misurarli con uno strumento. Ne avvertiamo la sincerità, la consistenza, la potenza, solo col moto del cuore e il rigonfiamento degli occhi.
E gli auguri più veri, più sinceri, sono quelli che dentro e fuori di noi attivano reti, energia, positività, vita, con un’altissima, incommensurabile percentuale di realizzabilità. Auguri