Mimmo Butera, il ricordo di Salvatore Ferlita, critico letterario di Repubblica e Presidente del Premio letterario Racalmare-Sciascia. “La scomparsa di Mimmo si è a poco a poco trasformata, a me pare, in una luminosissima e toccante apparizione”.
Mi sono scocciato dei commiati, ho come l’impressione che le parole oramai siano spuntate. Come fiammiferi usati, quasi del tutto consunti e messi di lato, ai margini dei fornelli.
Mi sono stancato della retorica degli addii: se ne vanno sempre i migliori, era un’anima troppo bella per sopportare le brutture di quaggiù.
Non ne posso più dei soliti giri di frase: che persona meravigliosa, in questo momento sarà in cerchio con altri trapassati come lui e saranno loro a godere della sua presenza, delle sue parole.
Il fatto è che si muore. Punto.
E questa volta ci è andato di mezzo Mimmo, il nostro Mimmo (mi permetto di inserirmi nella cerchia dei suoi sodali, pur avendo avuto modo di incrociarlo poche volte).
Galeotto è stato il premio Racalmare: posso dire a riguardo che magari non rimarrà nulla delle edizioni da me presiedute negli annali della letteratura. Ma in me indugerà il ricordo delle tre o quattro chiacchierate con Mimmo, che potrei definire pirotecniche, scoppiettanti, indiavolate, ma anche in questo caso gli aggettivi si rivelano monchi.
Era stato Gaetano Savatteri a parlarmi di Mimmo, suggerendomi intanto di tener conto dei suoi giudizi, di ascoltare le sue mozioni, ma soprattutto mi aveva messo in guardia: stai attento che se Mimmo dà la stura alle sue mirabolanti narrazioni puoi anche schiattare dalle risate.
Aveva ragione Gaetano: mi sembra superfluo dire che ci fu subito feeling tra noi. Parlammo di libri, di autori, di premi. Mi disse, tra l’altro, che gli mancava il numero 1000 della Memoria, la mitica collana della casa editrice Sellerio, dedicato a donna Elvira. Glielo procurai presto: ricordo ancora il guizzo del suo sguardo quando prese il volumetto tra le mani, tanto da assomigliare a papà Goriot nel momento in cui intercetta con gli occhi il crocifisso d’oro. Era ghiotto di libri, affamato, perennemente in crisi di astinenza.
Tra una cosa e l’altra ogni volta Mimmo incuneava un aneddoto irresistibile. Lo guardavo mentre raccontava per imprigionarne la mimica (la sua fisiognomica era dolce e suadente), per calcolare i tempi della battuta o della tirata allo sberleffo, provavo a anticipare l’esito della storia ma lui svicolava sempre e ti sorprendeva per la chiusa della storia. Davvero un talento straordinario, avrebbe potuto calcare le tavole di un palcoscenico imprigionando l’attenzione e scatenando le risate del pubblico più scafato. Conosceva bene le pause, sapeva quando accelerare col racconto, riusciva a descrivere efficacemente la scena, a fornirne i dettagli, a creare attesa in chi l’ascoltava rapito e poi, come un cecchino, mirava e centrava a meraviglia il bersaglio.
Detto questo (già in realtà rammemorato qui da chi ha scritto prima di me), qui però mi preme solo sottolineare che la scomparsa di Mimmo si è a poco a poco trasformata, a me pare, in una luminosissima e toccante apparizione, infiammando in tutti quelli che l’hanno conosciuto una coscienza d’amore che ha quasi svelato noi a noi stessi. Un’epifania di ricordi lancinanti, di ustioni d’affetto, che assomiglia quasi a una restituzione (seppur diafana).