Storie. Echi di un lontano passato che non sembra poi così tanto diverso dal nostro presente
Questa è una storia realmente accaduta, svoltasi in tempi lontani. Tempi in cui gli uomini erano spesso in lotta tra loro, in lotta per un pezzo di terra, a volte anche solo per un pezzo di pane. Erano tempi oggi considerati bui, pericolosi e di barbarie. L’intero mondo – almeno quello sino ad allora noto – stava conoscendo una fase di contrasti e intrighi, ma allo stesso tempo si stavano schiudendo anni di rinascita in una terra da sempre al centro di interessi umani vigorosi e sanguigni. Siamo nella Sicilia del XIII secolo, esattamente nell’anno del Signore 1220. Il luogo di cui si sta scrivendo è il monte Guastanella – situato nel territorio comunale di Santa Elisabetta, poco lontano da Agrigento – e i fatti che si stanno per narrare sono connessi, essendo in parte lì avvenuti, col castello che su Guastanella si ergeva. Qui, in una fortificazione che oggi ormai esiste solo nelle sue solide fondamenta, è stato tenuto prigioniero Ursone, vescovo di Agrigento. Ma facciamo un passo indietro.
L’anno 1130 rappresenta per la Sicilia la data dell’inizio ufficiale della dominazione normanna (instaurata da re Ruggero II) che, nel contempo, segna la fine del dominio arabo che qui durava dal IX secolo. Trecento anni che hanno rappresentato per l’isola del sole una fondamentale occasione di reale sviluppo. Molte sono state infatti le influenze nella cultura, nell’arte e nell’economia che la nostra terra e la nostra gente hanno ereditato dai saraceni. Tante città durante questo periodo furono costruite, abbellite o rese più vivibili e sicure di quanto non lo fossero prima. Grazie alle numerose scuole e biblioteche aperte nell’isola ricominciarono a circolare le più importanti opere degli autori latini classici, le prime traduzioni in latino delle opere di Aristotele – frutto del lavoro esegetico di molti importanti intellettuali arabi, tra i quali il celebre Averroè – e di tanti altri autori classici greci, all’epoca sconosciuti o dimenticati a causa della precedente tradizione orale. Ma non solo cultura, poiché gli arabi posero le basi per i grandi commerci che resero l’isola un’immensa area di scambio che vide la nascita di molti tra i più importanti mercati europei dell’epoca – alcuni dei quali ancora oggi esistenti – che indubbiamente hanno arricchito il patrimonio della nostra terra, tanto che continuiamo ancora a beneficiare di alcune prelibatezze importate in quel periodo dall’altra sponda del Mediterraneo, dallo zibibbo ai canditi fino ai vermicelli.
Dunque, sicuramente un periodo florido e di rinascita, dopo secoli difficili e problematici. Ovviamente però tale epoca, come in un’ideale medaglia dalle due facce, è stata anch’essa contrassegnata da forti scontri fra le varie parti politiche e militari presenti in Sicilia, contrasti provocati non dai soliti motivi attribuibili alla diversità di fede religiosa ma da altre e ben più materiali cause: la ricchezza economica e il potere da esercitare sul popolo. A tal proposito vi è infatti una circostanza significativa che caratterizzò quel periodo. I siciliani assoggettati al dominio musulmano non solo non furono mai obbligati a rinnegare la loro fede e a convertirsi contro la loro volontà all’islam ma non furono neanche mai assoggettati al diritto musulmano, poiché non essendo di fede islamica non avrebbero mai potuto essere destinatari di nessun precetto coranico. Sembra quasi che da un lontano passato della storia isolana provenga un insegnamento per le attuali (e future) generazioni, historia magistra vitae. In Sicilia, più di mille anni fa, cristiani e musulmani convivevano tra loro pacificamente e integrandosi nel migliore modo possibile, a riprova di come il medioevo ingiustamente sia considerato un periodo cupo e di arretratezza, presentando al contrario inediti esempi di modernità e tolleranza tali da apparire ancora oggi fortemente auspicabili.
Ma con l’avvento di re Ruggero II ebbe inizio l’egemonia normanna – sorta sotto l’egida di una dinastia da sempre abituata a farsi valere con le armi e gli eserciti piuttosto che con la diplomazia e l’acume politico – che costituì il Regnum Siciliae, all’inizio prospero, in una sorta di continuum ideale col periodo arabo, ma che dopo qualche decennio evidenziò tutti i suoi limiti, causati da lotte dinastiche e fratricide. Nel giro di pochi anni la Sicilia normanna degenerò nell’anarchia più totale, tanto che apparse “difficil che i cristiani si trattengano dall’opprimere i saraceni, e che questi, diffidando di loro e stanchi altresì di tanti torti, non si levino in armi, e non prendano qua un castello su la marina, là una rocca tra i monti”.
Fu così che cominciarono scontri e conflitti sempre più duri e cruenti tra le popolazioni che allora abitavano l’isola, aizzate l’una contro l’altra da capi e condottieri senza scrupoli. I saraceni, in minoranza, furono perseguitati e costretti a riparare tra le montagne dell’entroterra, trasformato in un vero e proprio baluardo musulmano all’interno dell’isola. Dal canto loro, però, gli stessi arabi colsero ogni occasione per sferrare duri colpi ai dominanti normanni prima e a quelli svevi poi, utilizzando le particolari tecniche militari frutto della loro esperienza sul campo e occupando fortezze, castelli e anche luoghi sacri ai cristiani.
Ed è in un tale contesto storico – caratterizzato anche dalla successione politica della dominazione sveva su quella normanna – che si inserisce la vicenda accennata all’inizio. Il vescovo Ursone durante la sua esperienza ecclesiastica a capo della chiesa agrigentina e prima del suo rapimento fu oggetto di duri attacchi politici, essendo stato allontanato dapprima dall’imperatore Enrico VI (in quanto ritenuto figlio del rivale Tancredi), in seguito perché non prestò giuramento a Guglielmo Capparono (allora signore di Agrigento) e infine dai saraceni, che in lui videro l’autorità ideale contro cui indirizzare i loro attacchi. Fu a causa di questa instabilità della chiesa locale che la stessa fu privata dei suoi benefici e dei suoi possedimenti, culminando tutto con l’occupazione del campanile e del duomo agrigentino, sede, appunto, della cattedra vescovile. La situazione che si venne a creare fu talmente drammatica che per un periodo non ci furono più battesimi da parte dei cristiani e gli abitanti dei territori agrigentini non si recarono più nemmeno nei campi per coltivarli e lavorarli.
Il vescovo Ursone, subito dopo essere stato rapito, fu tenuto prigioniero nel castello che allora si ergeva sulla sommità del monte Guastanella, fortezza già esistente in epoca bizantina ma la cui origine potrebbe addirittura risalire all’epoca sicana. Fu certamente progettata e realizzata in modo tale da poter essere arroccata sulla sommità del monte, risultando nel contempo facilmente difendibile, difficilmente espugnabile e dominante dall’alto un territorio – parte dell’antica “via sicana” – che si estendeva dal casale di Rahal-faddal (il feudo di Raffadali), passando per il fondo detto “Cometa” (l’attuale paese di Santa Elisabetta) fino alle pendici della rocca di Sant’Angelo Muxaro. In questi luoghi, quel periodo fu segnato da mesi di paure e scontri cruenti tanto che si persero i ricordi dei precedenti anni di pace e di prospera convivenza. Le vallate furono attraversate da ondate di saccheggi e gli stessi uomini che prima si consideravano amici e alleati rapidamente cominciarono a combattersi gli uni contro gli altri. La prigionia dell’alto prelato cristiano si protrasse per quattordici lunghi mesi, terminando – dopo tante ed estenuanti trattative che videro protagonisti influenti uomini politici ed ecclesiastici del tempo – solo con il pagamento di una somma di cinquemila tarì d’oro versata a titolo di riscatto.
Fu così che si pose fine a un episodio della storia siciliana di particolare complessità, denso di conseguenze storiche e sociali ma anche monito sulla pericolosità della degenerazione che il potere politico-militare può in ogni momento subire. Cronaca di un’epoca remota e di echi di un lontano passato che, a osservarlo meglio oggi, non sembra poi così tanto diverso dal nostro presente.