Per noi scrittori è un dovere morale tenere viva la memoria. Quella bella e quella brutta
A Màkari c’è il sole, c’è il mare, ci sono Saverio Lamanna, Suleima e Peppe Piccionello. Ma a Màkari c’è anche la mafia. E pure l’antimafia. Màkari, quella reale, è in Sicilia, in provincia di Trapani.
Tutti gli studenti universitari che hanno seguito i corsi di storia del professor Salvatore Lupo sanno bene che il primo documento ufficiale, supercitato, nel quale quasi incidentalmente si individua la mafia – sia pure senza dargli ancora questo nome – è una relazione di Pietro Calà Ulloa, magistrato borbonico che nel 1838 denuncia la presenza di «fratellanze, specie di sette che dicono partiti» composte da delinquenti, notabili e perfino arcipreti per coprire reati, manovrare contro la pubblica amministrazione e risolvere controversie. Calà Ulloa, nel 1838, era procuratore del Re a Trapani.
Ma per il sindaco di Trapani Giacomo Tranchida questa cosa non va ricordata. Non va ricordata in un romanzo. Non va ricordata in una fiction. Nemmeno se a dire questa verità è un personaggio minore che milita in un’associazione antimafia. E nemmeno se queste parole vengono pronunciate proprio a margine di un affollato convegno contro la mafia.
Nel mio racconto “Il lato fragile” (inserito nel libro di Sellerio “Quattro indagini a Màkari”) da cui è tratto l’ultimo episodio della fiction con Claudio Gioè, Domenico Centamore ed Ester Pantano, mi occupo proprio di mafia e antimafia. Della memoria dolorosa della Sicilia – a trent’anni dalle stragi del 1992 – e delle storture dell’antimafia.
Per il sindaco di Trapani, che si è offeso sentendo parlare di Trapani come luogo dove per la prima volta un magistrato ha scoperto la presenza della mafia, bisognerebbe invece ricordare – se proprio si deve: non bastano, dice, il sole, il mare e i monumenti? – la resistenza civile degli ultimi anni.
Ma se questa resistenza c’è stata, non si può dimenticare che c’è stata proprio in provincia di Trapani una presenza capillare di Cosa Nostra, numerosi omicidi e che da quest’angolo di Sicilia viene (e forse ancora ci vive) Matteo Messina Denaro. La trentennale latitanza del boss è possibile anche grazie a complicità, sostegni e silenzi che ancora resistono. O no?
Nel 1987, indagando sull’uccisione del magistrato trapanese Giangiacomo Ciaccio Montalto, il giudice Claudio Lo Curto scriveva che la zona di Trapani era «gravida più di ogni altra di cultura mafiosa» e che proprio ai mafiosi della zona di Castellammare del Golfo «era da ascrivere l’origine di Cosa Nostra», cioè il nome dato all’associazione criminale dagli stessi affiliati.
Ma questa cosa non si può dire. Suona male dentro una narrazione che fa vedere il bello della Sicilia, che cerca di individuarne il bene, ironizzando sui vizi, senza dimenticare gli abissi di violenza e prepotenza. Brutte cose del passato dice il sindaco di Trapani, non parliamone più. E lo stesso, più o meno, ha detto il sindaco di Siculiana Peppe Zambito, turbato e amareggiato che il suo Comune – da dove provenivano le potenti famiglie mafiose dei Caruana e dei Cuntrera, specializzate nei traffici internazionali di droga – sia stato accostato a vicende di mafia.
Insomma: la mafia c’è, ma non si dice – si diceva un tempo. Ora siamo arrivati alla conclusione che la mafia c’è stata, ma non si deve ricordare. Cancellare, rimuovere, diluire. Classico sistema all’italiana: non fare mai i conti col passato. Ricordare è da maleducati. Successe col fascismo. Succede oggi con la mafia. Siciliani, bella gente. Ricordiamo al massimo le vittime (ma a forza di dimenticare c’è il rischio di scordare perché e da chi sono state uccise). Basterà un po’ di retorica? Ma la retorica annichilisce il ragionamento.
La storia fa paura. Fa paura il passato. Fanno paura gli archivi. Troppi scheletri là dentro? I sindaci dovrebbero incentivare luoghi di memoria, di studio, di riflessione culturale. Ma a Trapani e dintorni, ad esempio, sono chiusi i teatri, sono chiusi centri di studio e documentazione sulla mafia inaugurati con gran clamore.
I sindaci hanno molte cose da fare, serie e importanti, per le loro città. Cose concrete: traffico, rifiuti, tasse. Non credo sia compito istituzionale delle amministrazioni comunali recensire libri e film. Per noi scrittori invece è un dovere morale tenere viva la memoria. Quella bella e quella brutta. La narrativa è sempre memoria, a volte perfino scomoda.
Da la Repubblica-Palermo 18 febbraio 2022