Storie e ricordi. In questo tempo sconsolatamente sospeso la memoria restituisce profumi, immagini ed emozioni di quando eravamo ragazzini (Venerando Bellomo, rileggiamo i suoi scritti)
Ci sono parole che solo richiamarle alla memoria provocano un’unicità di significato, di pensiero o di ricordo: una visione a voler essere precisi. Soltanto uno, quello che si ha per conoscenza o per semplicità d’attenzione. Poi, casualmente, capita di soffermarsi su quello stesso lemma, sul suo significato, ed intraprendere sentieri conoscitivi non preventivati, non meditati. Correlazioni tra identità apparenti, intense interazioni tra significati.
Candelora, festa della luce e del passaggio dall’inverno alla primavera. Parola che contiene il dubbio, l’incertezza sul divenire: così a seguire il noto proverbio. La speranza della luce e del tepore primaverile, se non insidiate dalle propaggini perseveranti di un buio e triste inverno, ostinato nel suo permanere, appunto il dubbio, una sospensione nella verificazione dell’attesa.
Passaggio nella speranza e nel desiderio, sincrona accettazione dell’incertezza, a rifletterci, é anche l’altra Candelora: la giovane moglie borghese di una novella pirandelliana. Passaggio dalla certezza di un’unione matrimoniale nella sua quotidiana fragilità, che trova sfogo ed interesse nell’indurre, da parte del marito, al conveniente ed imprudente salto nella pretesa sfolgorante vanità. In una vita appagata da fatui successi a detrimento di ogni sentimento della moglie, che spinge tra le braccia di chi gli è utile al suo scopo utilitaristico. Forma sociale che opprime e sopprime la vita, dove la sola possibilità – per la donna che amaramente ne soffre, avvilita e mortificata nel suo essere – è nella morte, estremo ristoro di paradossale sopravvivenza per la propria essenza umana: liberatoria e rivitalizzante. Passaggio la prima, metafora del passaggio la seconda, entrambe scrigno del dubbio di ciò che il futuro riserva ultimato il passaggio: l’iponderabile aprioristica comparazione del prima e del dopo, senza soluzione di continuità. E questa incertezza, questo prima e quel dopo, vale non solo per le persone, ma anche per i luoghi. Un tempo di sospensione quando della vita in un luogo rimangono le sole rovine e, non si sa quando, un’altra nuova vita, casualmente, riprenderà.
Così avvenne al mio paese, quando l’antico casale, come la polis di Ermione, rimase distrutto e irrimediabilmente perso, rimanendone solo uno spontaneo cretto; e l’occhio del passeggero spaziava fino all’orizzonte dell’interminato feudo, popolato da una fitta e selvaggia vegetazione che si rifletteva d’argento nell’alto spazio siderale della notte dove, in un divino silenzio, non si udiva voce umana ma quella di qualche goccia di pioggia che cadeva dalle foglie e quella dei venti, dell’eco che rispondeva a se stessa: del loro mulinare, nelle giravolte: il mazzamarello. E solo gli angeli potevano attraversarlo con le ali racchiuse, caricate sulle spalle come gli antichi pastori portavano l’ombrello.
E venne poi la licentia populandi e quel brandello del pianeta riprese forma e vita: una chiesa ed un colle nel colle, dove venne conficcata una croce, patibolo e rinascita dell’umanità: il Genius loci. Ed era vero che proprio in questo momento di passaggio di stagione, un turbinio di venti ora si scontravano in tenzone, ora l’uno cedeva il posto all’altro che con tenacia si aggrappava al batacchio della campana, ed il suo lento risuonare veniva sospinto, come una divinazione, fino alla stazione dei treni: cappella e gendarmeria per i pochi abitanti lì raccolti.
Il gelido vento di tramontana trascinando e raggomitolando intense oscure nuvole lasciava poche speranze ad immaginare la tiepida primavera. Ma poi, come d’incanto, si fronteggiavano il vento greco ed il ponente, che spazzava l’oscurità di quelle nubi lasciando la scena celeste alla trasparenza dei cirri e aprendo, come lo scostarsi di un sipario, un varco d’azzurro, con i colori di una tavolozza d’acquerelli. Prorompevano i profumi nell’aria, mischiandosi per avventura tra loro, riconoscibilissimi per chi ne era abituato. Gli odori del sambuco, della cannella, degli asparagi selvatici, del bàlico – pronto ad essere incastonato, da lì a poco, nelle palme baroccamente intrecciate – della zagara, del fiore del mandorlo erano l’overture del tempo di Pasqua: del passaggio dalla vita, alla morte, alla Vita.
E questi profumi chi, anche se ora vecchio, perfettamente ricorda, in questo tempo sconsolatamente sospeso dove a sopravvivere non è che la memoria, immateriale fotografia, di quando si era ragazzini, nella trepidante attesa delle vacanze pasquali; impazienti di assistere alle approssimative e spartane rappresentazioni dall’esordio nebuloso, che erano altrettanto misteriose, per la loro scarsa comprensione, della messa in latino. Dove il Martorio, parafrasando Vittorini in “Conversazione in Sicilia, solo per avventura era quello dell’Orioles. Recite dove era palpabile lo scontro tra il bene ed il male, personaggi i cui costumi ricordavano più i paladini di Francia che Gerusalemme dell’epoca romana. E vi è ricordo di quando i giovani recitanti si avventuravano alla ricerca delle penne caudate dei galli per rinnovare i pennacchi dei loro cimieri, infedeli alle promesse fatte alle padrone degli animali alle quali avevano giurato di non lasciarli troppo spennacchiati. E a rifletterci solo un attimo c’è da dare ragione a Guttuso che, nella sua Crocifissione, le persone sul Calvario le volle dipingere nude, attirandosi il biasimo della curia bergamasca, perché non riusciva a fissarli in un tempo: “Né antiche né moderne, un conflitto di tutta una storia”. Quale “simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio per le loro idee”.
Scene e personaggi che, però, nell’intimità del paese inducevano al cordoglio, al compungimento. L’ultima cena con gli apostoli, con le loro parrucche di canapa colorata: tra verità evangelica e leggenda, per la quale Cristo e Giovanni erano molto somiglianti, analogia resa nella messiscena con tali e quali costumi. La serale processione dell’urna, alla flebile luce dei ceri gocciolanti, che dalla chiesetta di san Nicola si avviava con il suo lento procedere, a passo di gambero, verso il monumentale calvario circondato da alte mura di gesso che si invettavano lungo il pendio fino ad incontrarsi a descrivere un’abside. Mura alle quali si affiancavano maestosi cipressi toscani le cui cime quasi a toccarsi formavano una volta: una cattedrale ad una navata. E tutto questo nell’abbraccio di un’immensa folla, com’è ancora tipico in tutte le processioni della settimana santa, con la particolarità di vedere lì mischiato l’arciprete, uomo tra gli uomini, in borghese, se si può così dire; tra le note di struggenti marce funebri, che per titolo avevano soltanto un numero, quello della foliazione delle partiture. E vi giungeva a notte inoltrata, tra il lacerante lamento dall’arabeggiante intonazione di Maria Passa pi la strata nova, dove ad attenderla una folla che si accalcava e all’interno della cappelletta che stava in cima il letto amorevolmente rifatto, per Cristo in deliquio, sempre dalle stesse persone che, di generazione in generazione, se ne davano consegna e ne conservavano il corredo.
Gente che per tutta la notte saliva e scendeva per l’erto colle per il viaggio devozionale, chi scalzo, chi in ginocchio, ad attendere le prime ore del giorno e partecipare a quelle che erano “le sette parti di predica” tenute dalla possente voce del predicatore Redentorista, che durante la quaresima aveva tenuto gli esercizi spirituali. E poi la rappresentazione rabbrividente della via Crucis, che muoveva tra due ali di folla dalle stradine a monte dell’abitato, e attraversava il corso fino a giungere al calvario, preceduta dal Centurione a cavallo, che scandiva col suono scuro del corno il momento della caduta del Cristo. Poi la crocifissione.
Ed era curioso vedere l’arciprete che affannosamente si inerpicava sul colle tenendo ben stretti in mano, avvolti nella carta camoscio, i lunghi chiodi per consegnarli alle persone, che anno dopo anno, avevano la devozionale consegna di crocifissori: un’espiazione penitenziale.
E devozioni su devozioni, ce n’era un’altra, quella di gnura Annuzziddra, che in ogni stagione, con qualsiasi tempo, si era fatta carico, all’imbrunire, di accendere la lampada ad olio che stava ai piedi della croce. Fino a quando il vento la fece cadere sversando l’olio sul legno che si incendiò, generando la popolare costernazione.
All’ora nona iniziava la processione dell’Addolorata che dalla chiesa Matrice giungeva al Calvario, tra due lunghe file di donne che, come in una fortissima solidarietà tutta femminile nel dramma della Madre, mestamente intonavano “Sono stato io l’ingrato”, muovendo il passo al tempo dei tristi tonfi del tamburo scordato. Al seguito le rappresentanze dei circoli e delle associazioni con le loro bandiere brumate. E poi l’attesa delle recite del Mortorio e la scinnenza con la lentissima processione che si concludeva, a tarda notte, con la sepoltura. Una dilatazione del tempo in questa tradizione come se le ore, a tratti si fermassero, rimanessero in attesa. Ed in attesa del rinnovarsi annuale della tradizione pasquale, rimane il dipinto dell’Ecce Homo che Mauro Zambuto fece dono nella Pasqua del 1933.
L’artista, di origine grottese, era figlio del regista Gero, che diresse Totò De Curtis nel suo film di esordio: Fermo con le mani! Mauro Zambuto docente di fisica elettronica all’Università di Padova è noto ai più non tanto per la sua professione, ma per essere stato il doppiatore di Stan Laurel insieme ad Alberto Sordi che era la voce di Oliver Hardy.
Ed è di tutta evidenza che il dipinto si ispira a quello di Guido Reni, ma ha per i grottesi una certa familiarità per il ricordo che si ha dei santini che circolavano durante la settimana santa. La corona di spine, la canna come scettro, Cristo avvolto in un vile rosso straccio, le stille di sangue: la sofferenza del Figlio umanato, la struggente bellezza dell’opera. Ed a proposito del bello, di quello che è in sé, del sublime, vengono in mente le parole di Umberto Eco per l’opera di Caspar David Friedrich: “…Ecco, credo che nel corso dei secoli l’esperienza del bello sia sempre stata quella che si prova stando così, come di spalle, di fronte a qualcosa di cui non facciamo parte. In questa distanza sta l’esile filo che separa l’esperienza della bellezza da altre forme di passione”.
Ed è la scena di chi osserva l’uomo di spalle che pellegrino giunge davanti al cancello che chiude la cappelletta e guarda l’Uomo straziato e nei suoi occhi vede Dio.