Il racconto della domenica
Giovanni è un uomo molto stanco.
Ha sorvolato l’ultimo decennio della sua vita raggomitolato come un feto dentro bolle di sapone fragili e terse, tra nebbie fitte e folate di scirocco. Solo a tratti si ridesta dai caldi torpori di quel pietoso oblio, squassato da cupi e osceni singulti vitali, pause sincopate e dolorose durante le quali riemergono improvvise e inaspettate emozioni, note di felicità trapassate che gli strappano il petto e gli lacerano l’anima.
In quegli istanti viene investito da lancinanti raffiche di ricordi, dal peso muto della storia che gli opprime il cuore e come scossa elettrica gli attraversa fulminea le sottilissime vene e le fragili ossa. Brandelli di vita vissuta, come puzzle addormentati e dispersi, si ridestano e si ricompattano, esplodendo di nomi, volti, luci, ferite e lui tenta di urlare, ma l’urlo resta muto, impotente, perfettamente sospeso, fino a dissolversi del tutto in un nuovo, stupefacente oblio.
Dalla finestra di una stanza Giovanni guarda il mare, silenzioso e attento come un avido spettatore, con la pelle grinzosa cosparsa di candido borotalco e la biancheria nuova che sa di ammorbidente alla vaniglia e di buon disinfettante.
Non ricorda più come si chiami quella strana distesa liquida che emana luccichii stupefacenti e colori iridati. Qualcosa dentro gli suggerisce che un tempo doveva sicuramente saperlo e che magari ne aveva pronunciato, sussurrato, gridato il nome innumerevoli volte.
Che forse vi si era immerso per un atto di amorevole purificazione o magari vi era quasi annegato nel tentativo di salvare un cane.
Forse.
Chissà.
Giovanni guarda quel mare e vorrebbe piangere, ma ha dimenticato come si fa e se ne strugge. Eppure un tempo era un fatto semplicissimo. Le lacrime venivano giù belle e solitarie, senza fatiche richieste, tiepide e leggere come le mani di un neonato o come le dita intrecciate sul petto di chi ha da poco lasciato la vita e il nostro amore.
Le sue dita bianche, le sue lunghe dita!
E possedevano il sapore salato e confortante della risacca odorosa di alghe al tramonto estivo, quando la malinconia del giorno sposa la tenerezza del domani.
Giovanni di tenerezze malinconiche e di tramonti estivi ne ha ingeriti ottanta e la risacca odorosa di alghe gli è rimasta attaccata dentro impregnando tutti i pori della sua pelle.
La buona Ksenia gli prepara il brodino della sera, con carne tenera di pollo e verdure tagliate a pezzi piccolissimi, perché Giovanni ha dimenticato come si mastica e i cibi li ingoia direttamente, senza più tentare neanche di identificarli, con l’avidità distratta di chi non sa esattamente cosa lo invitino a fare. Allora bisogna stare attenti che non si strozzi, perché una volta una polpettina gli andò di traverso e lui si ritrovò squassato da violenti colpi di tosse che atterrirono Ksenia e lasciarono il suo esile corpo quasi privo di forze. La signora Matilde, accorsa dal piano di sotto, s’infuriò con la badante e ordinò che da quel giorno si servissero al padre solo cibi frullati.
E dunque, una volta cotti, quella carne e quelle verdure finiranno travolti dalle lame del mixer elettrico, quello a immersione, che li ridurrà in poltiglia finissima, tanto lui non saprà mai cosa mangerà, come non sa cosa ha mangiato quella mattina o la sera precedente.
Però ricorda cosa mangiava quando aveva cinque anni e sua nonna impastava il pane con farina di frumento appena macinato e sale fino e aveva le braccia nude e bianchissime con le carni che penzolavano polpose e il fazzoletto nero sui capelli grigi e i pugni forti che schiacciavano, amalgamavano, appallottolavano. Lui la guardava incantato e felice, avvolto dal profumo familiare del lievito fresco e del forno caldo.
Di quel passato così lontano ricorda molto.
Del presente, invece, non sa quasi più nulla e non lo sa da quindici anni, dalla mattina in cui uscendo sul pianerottolo e trovandosi di fronte quella vicina di casa che conosceva e salutava da anni non ne ha più ricordato il nome ed è rimasto lì in piedi a fissarla come un ebete per parecchi minuti, persino dopo che quella aveva già richiuso la porta.
Poi ci fu la caffettiera lasciata accesa sul fuoco, i nomi dei nipotini invertiti e confusi, i “che giorno è” e “che ora è” chiesti con parossistica ripetitività, i conoscenti che lo riportavano a casa quando andava a fare la spesa, ma poi si scordava la strada del ritorno e prendeva a girovagare sperduto premendo il dito su altri campanelli.
Allora i figli avevano smesso di minimizzare, di sorridere, di sottovalutare e, finanche, di litigare.
La malattia era proprio quella col nome strano, il nome di quello stramaledetto psichiatra tedesco che l’aveva capita, identificata, bollata.
Una condanna senza appello, senza conforto, senza speranze. Una condanna per tutta la famiglia. E dunque meglio rassegnarsi e accollarsi il peso dell’assistenza, ché comunque le strutture non ci sono, tanto vale organizzarsi e aspettare.
E così eccolo là Giovanni, affidato da dieci anni alle spalle dure di Ksenia, col pannolone assorbi tutto, adagiato su una poltrona imbottita di cuscini, il bavaglio dei neonati, pronto a farsi imboccare di chissà cosa.
I nomi se ne sono andati, le cose se ne sono andate, la mente proiettata altrove.
A un certo punto i neuroni del suo cervello hanno cominciato a spegnersi, proprio come i lampioni gialli dei marciapiedi alle prime luci dell’alba. Un colpo d’interruttore, un click e il neurone non c’è più.
Click! Click! Click!
Due, tre, quattro.
Tutti spenti.
Chissà adesso quanti gliene sono rimasti. Di certo pochissimi. Forse uno solo. Che non deve essere il neurone del presente, quello è stato il primo a fare click.
La buona Ksenia, invece, conosce solo il presente, e i giorni passati li ha lasciati nell’armadio polveroso di una casa di Charkiv, da dove è partita dieci anni prima su un autobus ferroso e affollato di sogni.
Le altre compagne si sono perse sui bordi di putridi marciapiedi o dentro magazzini abbandonati dai buoni costumi. Lei ha trovato un lavoro pulito e onesto.
Forse la salvò la disarmante bruttezza, l’età non più fiorita, il pregio di un cuore semplice in un corpo privo di attrattive, la dote di braccia tenaci e pazienti, allenate a sollevare e pulire corpi in disfacimento. Forse la salvò l’amore per quella nuova patria meta d’ illusioni e foriera di disillusioni, bagnata dal sole e illuminata dal mare.
Di quella nuova patria le piace soprattutto la lingua, che ha imparato subito impastandola col dialetto locale e con la cadenza ritmica delle nenie infantili imparate in Ucraina. Le piacciono quelle parole che finiscono con la vocale, le paiono complete, compiute, piene, come cerchi perfetti.
Le parole italiane le paiono perfette.
Ksenia le ha imparate guardando la televisione, davanti alla quale si piazza con gli occhioni verdi ingordi, il viso paffutello di bambina rosso e acceso di felicità. Quella giostra infinita di quiz, pubblicità, cibo per gatti, ricchi premi e gettoni d’oro, quel circo grottesco affollato di corpi scolpiti e sorrisi di lusso, quel falso mito che attira carrette di disperati alla ricerca di un Eldorado, che è solo quello racchiuso in una scatola a schermo piatto, quello la attira come una calamita catapultandola in una nuvola di cipria fiabesca e magica, dentro la quale potrebbe anche perdersi per sempre.
Giovanni se ne sta seduto vicino a lei e fissa inutilmente quella scatola rumorosa. Avrebbe giurato che fino a poco tempo prima sulla poltrona accanto alla sua ci fosse stata una donna bruna e minuta, con la voce leggera leggera e le ciglia sottili. Una donna come quella del ritratto sulla parete.
Dov’era finita?
Se l’era forse portata via uno di quei click che gli rubavano le cose?
Ksenia lo sapeva come se n’era andata. Glielo aveva raccontato la signora Matilde quando ancora non si era arresa e saliva ogni giorno a portare una carezza al padre.
Gli pettinava i capelli, ancora folti nonostante l’età e la feroce malattia e gli parlava dei nipoti, dei vestiti che dopo tre mesi non andavano loro più bene, tanto crescevano in fretta, dei calci che si tiravano quand’erano in collera l’uno con l’altro.
E del marito sempre fuori.
Chissà dove va. Chissà con chi va.
Giovanni la chiamava mamma, perché quelli erano i gesti di una mamma e lui mica lo sapeva più che cos’era una figlia.
Matilde aveva raccontato a Ksenia di una donna bruna e minuta, con la voce leggera leggera e le ciglia sottili, che aveva detto buongiorno al marito per quarant’anni. Quarant’anni di caffè versati in due tazze, di fischi d’intesa chiarissimi, di cammini sostenuti da quattro gambe, di gioie piante da quattro occhi e di fatiche condivise da quattro braccia.
Quarant’anni d’amore.
Poi una sera l’altra metà di quell’amore si era addormentata e al mattino successivo per Giovanni non c’era stato nessun buongiorno. E allora click! Perché devi pur difenderti da un dolore senza confini e non sempre puoi farlo da solo.
O ti aiuta il cuore o ti aiuta il cervello.
Il brodino era davvero buono.
Ksenia aveva messo un po’ di sale in più, nonostante i divieti della signora Matilde, perché aveva l’impressione che il cibo particolarmente gustoso risvegliasse per un attimo la sensibilità gustativa di Giovanni e che nei suoi occhi passasse un lampo di piacere e di gratitudine. Lui però ne aveva deglutito assai poco, sputandolo e lordandosi come i neonati.
Certo è strano che oggi si sia assopito così presto, solitamente non si addormenta prima delle undici.
Ma la buona Ksenia non ci mette molto a capire che non si è solo assopito.
Lo guarda con sollievo e prende a recitare nella sua lingua una preghiera per ringraziare Dio.
Non dovrà più cambiare pannoloni né pulire piaghe, non dovrà più frullare, imboccare e pazientare, né sarà rimproverata dalla signora Matilde per averlo tenuto troppo a letto.
E Giovanni domattina si risveglierà in un altro posto e in un altro tempo e lì sentirà di nuovo il lieto buongiorno dalla voce leggera leggera della donna bruna e minuta con le ciglia sottili.
Non c’è voluto poi molto, è bastato un solo click.
L’ultimo click.