Storie. Era il Giovedì Santo del 1956 e la decisione del presule provocò una vera e propria sommossa popolare. Alla fine la processione si fece
Serate di nebbie lattiginose, deboli aloni delle lampade che riflettono luce sulle bàsole lucide per l’umidità, silhouette sospettose dai contorni sfumati, che è difficoltoso riconoscere le persone se non dalla voce, latrati di cani in lontananza.
Così al mio paese la primavera ha il suo lento incedere contrastato da un impietoso inverno, dalla natura sovietica, che caparbiamente resiste, al quale ci si opponeva con scarso successo. Ma se trova spiraglio uno sprazzo di stagione, anche stentato e sofferto, per un solo istante, ecco avvertire l’odore dello zenzero e del miele, trascinati da un soffio speziato, aromatico: tempo di Quaresima mi disse un vecchio che parlava col fuoco.
Ed in quel mentre riemergono storie per divenire narrazioni: quelle che posteriormente diciamo essere stata la verità, una trasfigurazione di ricordi ed emozioni. Ma che ad andarci a fondo, nel riscontrarne le contraddizioni o le deduzioni, muta nel suo essere per divenire artificio, finzione, malinteso, menzogna, rimanendo distante dalla verità radicale: la vita quale criterio della verità, rimanendo la concordanza logica solo criterio della ragione. Meccanismi ariosteschi della quête che spinge alla ricerca, multiforme e centrifuga, di fatti e di oggetti carichi di valore simbolico. Sensazioni dunque, anche per i segni del cielo che si diffondono tra gli uomini tesi a scrutare il segno dei tempi: predizioni.
E quel segno dei tempi che sarebbero mutati si verificò a Grotte in un giorno di Quaresima del 1956, quando in paese giunse il Vescovo coadiutore, originario del novarese, che a conclusione di una riunione con le autorità civili e religiose locali, come riferiva uno dei parroci dell’epoca, affermò la sospensione delle manifestazioni popolari del giovedì santo, decisione, che per l’epilogo che ne ebbe, si rivelò assolutamente incauta. Forse proprio per la diversità di ragionamenti, almeno allora, tra culture geograficamente opposte: contrapposizioni della logica dell’anima e della fede, punti di vista diversi nella prospettiva della Chiesa, che da lì a qualche anno avrebbe iniziato il suo percorso conciliare.
Fu rappresentato al presule che era tradizione inveterata che l’urna con il simulacro del Cristo morto venisse condotta lentamente, accompagnata da meste marce funebri, in una affollatissima processione, assecondando un suggestivo percorso di stradine tortuose, dalla pieve di San Nicola fino alla cappelletta di un acclive Calvario. E ciò, ad un gruppo di persone, che ne fecero denuncia al vescovo, appariva assolutamente contraddittorio con la verità evangelica, anzi a legger in filigrana tali argomenti, si riscontrava l’eufemismo per dire eretico, blasfemo, scismatico: irragionevolmente i grottesi anticipavano la morte di Cristo!
E, in quella adunanza, secondo la tale versione, non vi fu alcuna opposizione dei partecipanti, anzi questi rimasero nell’assoluto silenzio, scambiato per consenso o per disinteresse: invece oppositivo, ostile. A ben vedere, proprio per quel metodo tutto siciliano di affermare una cosa per intenderne il contrario, quell’atteggiamento avrebbe dovuto indurre al sospetto, il più terribile, il più temibile: dovendosi, invece, percepire il fragoroso rumore di quel silenzio: una sospensione del respiro e dell’aria prima dello scatenarsi delle forze della natura.
A tale versione, che non mostrava segni per non essere credibile, se ne contrapponeva, almeno nella causa, nella scaturigine, un’altra rievocata dal sindaco comunista dell’epoca, Salvatore Carlisi, il quale ricordava che egli stesso aveva rappresentato al prelato che la decisione si profilava contraria al sentimento religioso popolare, espresso in quella tradizione, che si perdeva nel tempo.
Secondo il sindaco l’origine della vicenda era da ricercare in questioni di natura politica, che avevano condotto alla deposizione del vecchio arciprete, anche se ormai, per età, giunto al termine delle sue funzioni, per avere celebrato un matrimonio religioso di un professore comunista. Che per quella decisione curiale di divieto per la processione era rimasto fortemente contristato. Sostituendolo, immantinenti, è proprio il caso di dire, con altro sacerdote “forestiero” che, per indole, aveva attenzioni non solo di fede. Così instando, in alto loco, per quella soluzione che, nei fatti, mirava a concentrare l’intera celebrazione all’interno della chiesa, rimanendo, in tal modo, unico dominus, senza rendimento di conto. E così venne civicamente percepito il divieto o in tal senso se ne trasse convincimento: appunto la concordanza della ragione.
All’epoca dei fatti, com’era tradizione, durante la settimana santa l’urna veniva preparata dai fedeli per le processioni, mentre quell’anno, stante la proibizione, rimase nel suo polveroso abbandono.
Conclusasi la messa del giovedì santo, dopo la rappresentazione dell’Ultima Cena secondo un’estrapolazione dal testo del mortorio dell’Orioles, le persone, di ogni fede politica, di ogni credo religioso, cominciarono ad affollare la Matrice non solo per visitare i sepolcri ma a richiedere che si desse luogo alla processione.
Fedeli che si tramutarono in folla rumoreggiante, esasperata, insolente, che poco sarebbe mancato a passar alle vie di fatto, che in un momento di follia collettiva indirizzó la propria collera sugli arredi, che finirono affastellati e capovolti, in un turbinio di imprecazioni.
Folla maligna, divenuta supplicante verso il sindaco, che ben capí che la vicenda era diventata esplosiva. E lo capí anche l’arciprete che, sentendosi braccato, gli sembrò prudente riparare sulla torre campanaria, dileguandosi in un’aerostatico riparato ricovero. Ed il sindaco, nella sua autorità e necessità di governo, diede disposizioni ai carabinieri di recuperare dall’arciprete le chiavi della chiesetta, che lanciò dalla balaustra del suo scomodo rifugio.
E a riscoprire la memoria di quelle scene di moto popolare, che ancora una volta avevano portato allo scontro, dopo circa ottant’anni, con l’autorità ecclesiastica, vien da pensare, divagando per assonanza, a proposito di autorità costituita, di folla e di chiese aperte a forza o a furor di popolo a quanto accadde nel 1871 a Riesi, dove il sindaco ed il parroco vennero allo scontro, tanto che il primo formulò istanza ai Valdesi affinchè venisse inviato in paese un loro pastore. Giunse a Riesi il pastore evangelico Teofilo Malan, che venne accolto dal sindaco e dal popolo. Vista quella moltitudine il ministro di quel culto rappresentò che era necessario un locale chiuso per la conferenza. Fu proposta la chiesa cattolica di San Giuseppe, ma fu trovata chiusa e le chiavi le teneva il canonico che opportunamente si era ritirato in campagna. Con la folla che sostava lì su di un’altura, il sindaco cinta la sciarpa ordinò a Reali Carabinieri, presenti, di fare scassinare le porte. Chiamato il fabbro questi aprì la chiesa e tutto il popolo vi entrò.