Addio a Letizia Battaglia. Ha raccontato con la concretezza delle immagini la verità di una città e di un mondo che sperava di vedere infine senza guerre e soprusi.
L’ultimo viaggio di Letizia Battaglia la porta lontano dalla sua città con mille bare ammassate al cimitero dei Rotoli e il forno crematorio fuori uso, come sempre. Costretta a correre verso Cosenza per poi tornare dentro un’urna cineraria fra le mani della figlia, Shobha, e delle sorelle, Cinzia e Patrizia. Pronte ad esaudire comunque le ultime volontà di questa grande fotoreporter che fu assessore al verde e alla bellezza nella “primavera” di Orlando, infine delusa dall’inverno di una città dove era riuscita a strappare l’istituzione di un Centro internazionale di fotografia ma battendo i pugni contro il comune come fanno al “Gramsci”, l’altro istituto che annaspa.
Questa parabola ha amareggiato l’ultima stagione della donna che ha conquistato premi in tutto il mondo e che se ne è andata la sera del 13 aprile dopo mesi e giorni dolorosi.
LE DITA E RUMI, IL CAGNOLINO TIBETANO
L’ultima immagine dell’addio di Letizia Battaglia è un intreccio di dita. Un’immagine che resterà impressa per sempre nella memoria. Le sue dita, ancora calde, strette da quelle di Shoba, pure lei maestra di fotografia. Dita strette fra le mani leggere di Marta e Matteo, due dei cinque amati nipoti, perduti nell’ora del distacco. I loro occhi su Mimma, la devota assistente che nulla può fare se non sovrastare anche lei la piramide d’amore, saldata nell’incastro delle mani dal piccolo peloso Rumi, il cagnolino tibetano di famiglia che s’intrufola fra i corpi. A digiuno e triste negli ultimi tre giorni di sofferenza. Adesso con due zampe sul lettone della padrona, il collo allungato, il muso su quell’intreccio, trovando e leccando le unghie livide di Letizia.
Avesse potuto distaccarsi dal suo corpo col sangue malato, i polmoni intasati, le ossa rotte, il volto tumefatto dalle cadute degli ultimi giorni, la fotoreporter che ha raccontato gli omicidi di mafia, l’agguato a Piersanti Mattarella, i bambini di Palermo, Pasolini ed Ezra Pound, avrebbe forse consegnato alla sua storia quest’ultimo scatto. Eccola, fra gli amori più forti e teneri della sua vita. Tutti protesi con quelle dita strette quasi a trattenerla, a resistere, come non era più possibile fare dopo il tormento degli ultimi mesi.
Come non hanno potuto fare nemmeno Cinzia e Patrizia, le altre sorelle nella notte rimaste accanto a lei. Con l’amica del cuore, l’architetto Marilù Balsamo, e pochi altri. Nell’ammezzato di un moderno edificio anni Settanta, fra Politeama e Piazza Croci, il cuore borghese da dove partiva per raccontare i deboli, i minori, i quartieri a rischio, da Ballarò alla Vucciria.
LA MALATTIA FRA OSSIGENO E SIGARETTA
“Un ammezzato costruito per farne un ufficio, ma trasformato in casa e laboratorio da mamma perché, diceva, ‘così sto con tutti voi’. Già, io abito all’attico, Patrizia sopra di lei, fino a due mesi fa c’era pure il fratello morto nell’appartamento accanto, gli altri nipoti sempre qui, Massimiliano, Gianfranco, Francesca…”, racconta Shoba che tutti chiamano così, ignari del suo vero nome, Angela, che tanto piaceva a Letizia, felice di averla avuta accanto negli ultimi due difficili anni. Anche se questo ha segnato un distacco dell’adorata figlia dall’India e dal Nepal dove ha costruito una scuola di fotografia, lavorando fra gli ultimi, con le donne, i bimbi più poveri. E, quindi, riproponendo lontano dalla Sicilia lo stesso impegno della madre.
“Non potevo lasciarla. Nemmeno quando è stata ricoverata alla ‘Candela’ e la fotografavo con la mascherina dell’ossigeno e una sigaretta accesa di nascosto…”, ricorda adesso sorridendo di questa ribelle che sfidava il destino senza rifiutare gli inviti, pur dovendo correre spinta sulla sedia a rotelle.
“Ma come ci vai a Orvieto?”, chiedevano Patrizia e Cinzia appena due settimane fa. Ma lei non sapeva dire no alla presentazione di un libro, una conferenza, una mostra. E le sorelle s’attaccavano al telefono organizzando la camera per disabili, il posto adeguato in areo, il bombolone dell’ossigeno.
“A Orvieto è riuscita ad arrivarci, testarda, ma il giorno dopo – continua Shoba – via alla gran corsa per ritornare dai suoi medici, da Amelia Interrante, la pneumologa della ‘Candela’ rassegnata davanti alle smanie per la sigaretta proibita, invocata con gli occhi di una bimba. Gli stessi che mi hanno guardata tre ore prima della morte, con due dita che indicavano una sigaretta. E io ho finto di assecondarla. Gliene ho data una immaginaria. Lei l’ha presa, ha portato le dita alle labbra, poi ha cominciato ad andarsene…”.
I BIMBI DI PALERMO E DEL TRIBUNALE
E’ accaduto all’ora di cena, ma la crisi era subentrata a mezzogiorno. La pressione e gli altri valori a terra. Un panico quando per telefono non si trovavano i medici di famiglia. Di qui la chiamata al “118”, continua Shoba: “Ma sono arrivati solo due infermieri, pronti a portarsela in ospedale. Capimmo che non l’avremmo rivista più… No, no. Mamma resta qui”.
Un pomeriggio ad assisterla, a controllare l’ossigeno, a capire che stava arrivando il momento e la morte che Letizia s’era rifiutata di vedere in faccia due mesi fa, quando il fratello della porta accanto ha chiuso gli occhi. “No io non ci vado, Shoba. Fai una foto e portamela”. Ha preferito rivedere il fratello l’ultima volta così, Letizia. Con uno scatto. Come forse avrebbe fatto con sé stessa se avesse potuto alzarsi dal lettone e accarezzare Rumi, il cagnolino Lhasa Apso di “razza barbuta”, come dicono in Tibet dove nacque 2.500 anni fa con il buddismo, pratica che questa regina del ritratto aveva imparato a studiare con Shoba, la viaggiatrice. Altro punto d’unione di progetti interrotti.
A cominciare da quello che avrebbe portato entrambe a fotografare i ragazzini richiusi nelle carceri minorili. Altra tappa dei disagi da raccontare indicando la strada del riscatto possibile. Senza retorica. Con la concretezza delle immagini. Per continuare a raccontare la verità di una città e di un mondo che sperava di vedere infine senza guerre e soprusi. Come tutti vorremmo, senza riuscire. Con pena. La stessa con cui Letizia ha chiuso gli occhi, avvertendo però il calore di una montagna di dita e di affetto.