Fondato a Racalmuto nel 1980

Arance rosso sangue

Storie.  

Massimo D’Antoni

Erano tre giovani furfantelli. Dei banalissimi ladri di arance. Ma mica le rubavano per divertimento. No, non erano certo tipi che avessero il tempo di andare per i campi a fare i goliardi. Sì, perché all’epoca, a Sciacca (come ovunque), imperava la fame. Fame: parola drammaticamente inequivocabile.

Fu lei (la fame), quella notte di dicembre del 1940 a spingere i tre a sfidare il freddo e a fare rifornimento di navellini. Non si aspettavano di essere interrotti dalla vista confusa tra le tenebre di due divise. Erano giovani carabinieri che si erano appostati e che adesso erano pronti ad intervenire, per mettere fine alla loro carriera di malviventi, in flagranza di reato.

Apparentemente una vicenda semplice semplice, niente di criminologicamente rilevante. E invece no: quella notte la tragedia era dietro l’angolo.

“Fermi”! urlarono i servitori del Regno rivolti ai ladri.

Ma loro non si fermarono. Al contrario: si diedero alla fuga. Ne scaturì un lungo inseguimento per le campagne. A piedi, ovviamente. Niente scene da gangster movie americani, s’intende. E, poverini, i carabinieri non disponevano nemmeno di un cavallo che potesse agevolargli l’azione. E pensare che il Duce, prima di impegnarsi a spezzare le reni alla Grecia, aveva consegnato la dichiarazione di guerra alle ambasciate di Francia e Gran Bretagna. Qui serviva appena appena un cavallo. A spezzarsele le reni erano i due carabinieri all’inseguimento di tre ladruncoli da strapazzo. Le pesanti bardature delle divise, il berretto d’ordinanza da mantenere saldo sulla testa, la bandoliera che si agitava sulla giacca non rendevano facile la vita. Probabilmente avrebbero anche preferito rinunciare all’azione. Ma non potevano farlo. Dovevano procedere.

E fu un inseguimento lungo, con momenti di tatticismo. Ogni tanto guardie e ladri si perdevano di vista. Poi, al buio, si intravedevano vicendevolmente, e ripartivano. Improvvisamente, all’aurora, come uno squarcio in quella notte da lupi, si udì un colpo d’arma da fuoco. Gli uccelli si svegliarono, i cani iniziarono ad abbaiare. I militari dal canto loro si cercarono a vicenda. Si guardarono con gli occhi sbarrati, e si accorsero che le rispettive pistole d’ordinanza erano ancora nelle fondine. Mentre le nuove circostanze gli imponevano di prenderle in pugno, i loro occhi assunsero un’aria preoccupata. Ladri d’arance armati? Non proferirono verbo. Non ce n’era bisogno. Si dissero lo stesso, pur senza parlare, che la faccenda si stava facendo troppo seria.

Non ci si poteva fermare più. Era l’alba quando nei pressi di Porta Palermo, in via Goletta, dove finiva la campagna e iniziava il paese, di sparo se ne udì un altro. Uno dei due carabinieri istintivamente si parò dietro un muro. Guardie e ladri erano lì, concentrati in pochi metri, celati tra le case di quel budello che culminava nel ghetto ebraico. Era la volta buona per bloccare almeno uno di quei disgraziati. Propose dunque all’altro un’azione tattica. “Vado in avanscoperta, tu coprimi, e se è necessario non esitare a sparare, d’accordo?” Non ci fu alcuna risposta. Si girò e lo vide. Il compagno giaceva sanguinante sul selciato. Gli si avvicinò per soccorrerlo. Gli mise due dita sulla giugulare. Nessuna pulsazione. Morto sul colpo. Si alzò in piedi. Tremava. Intanto si era aperta una finestra. Rivolto alla donna affacciata disse: “Zà Marì, mi dassi un linzòlu”. E la zà Maria, impaurita, glielo diede. “Figghiu mèu”, disse lei rivolta al giovane carabiniere morto nell’adempimento del suo dovere. Il corpo fu coperto.

Il militare superstite, freddamente, decise di rinunciare all’azione nei confronti dei ladri d’arance. Ma aveva i loro volti scolpiti nella mente. Era questione di ore, e sarebbero stati regolarmente arrestati. Adesso lui aveva una cosa più urgente da fare. Vegliare il cadavere del suo collega fino all’arrivo del carro funebre. Due contadini passarono per andare al lavoro. Si fermarono, si tolsero il cappello, si fecero il segno della croce.

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