E quella memoria antica che si attiva
Nel mese di giugno di tanti anni fa, il poeta premio Nobel Giosuè Carducci scriveva Pianto antico. Il titolo dice forse poco, non in tutti attiva ricordi o emozioni. Se però leggiamo, o sentiamo, i primi versi (“L’albero a cui tendevi la pargoletta mano, il verde melograno…”) allora si accenderanno di sicuro le sinapsi del cervello studente.
Nel mio caso, si è attivata la memoria antica per un componimento incontrato da ragazzo in un’antologia scolastica e nella spiegazione di una insegnante di Lettere. Sono di quelle poesie che, specialmente alle medie, impari a pappagallo come una canzone di cui urli le parole come fossero parte della melodia, non badando al contenuto, al significato, all’ispirazione, all’emozione, e tralasciando tutte quelle note a piè di pagina che gonfiano le poesie fino a farle esplodere. Aggiungo che, nel mio caso, c’è l’aggravante dell’ingenua storpiatura dei primi versi usati in taluni contesti amichevoli a fini innocentemente ludici, giusto per fare la battuta ironica, non rendendomi conto dello sfregio compiuto. Peccati di gioventù, perdonabili.
A distanza di oltre quarant’anni, mi si è materializzata davanti agli occhi quella mano pargoletta. È del figlio del poeta, di nome Dante, morto all’età di tre anni e che soleva indicare quel verde melograno in un orticello di Via Broccaindosso n. 20 nel centro storico di Bologna, dove Carducci abitò dal 1861 al 1876 nei suoi primi anni bolognesi quando, su proposta dell’allora ministro dell’Istruzione Terenzio Mamiani della Rovere, venne chiamato a ricoprire la cattedra di Eloquenza Italiana e poi di Letteratura Italiana all’università Alma Mater (sarà professore per quarantaquattro anni, fino al dicembre 1904 quando si congedò per motivi di salute, lasciando la cattedra all’allievo Giovanni Pascoli)
Ed è nell’abitazione di Via Broccaindosso che Carducci scrisse quei versi (“né il sol più ti rallegra né ti risveglia amor”). Una lapide ricorda cosa rappresenta questo luogo per la storia del poeta e della letteratura italiana: “Di qui lanciò all’Italia i Giambi ed epodi. Qui, per la morte del piccolo Dante, amore e dolore gli dettarono Pianto antico”.
Distrutto per la morte del figlio e poco prima per la perdita della madre (“Non voglio far più nulla. Voglio inabissarmi, annichilirmi“), Carducci lasciò la casa di Via Broccaindosso per trasferirsi nella vicina Strada Maggiore 37, in un palazzo di proprietà del chirurgo Francesco Rizzoli, che lascerà nel 1890 per andare a vivere in quella che sarà l’ultima sua dimora, la casa delle Mura Mazzini, tra Porta Maggiore e Porta Santo Stefano, oggi Casa Museo e monumento nazionale.
Giosuè Carducci scrisse Pianto antico nel giugno 1871, pochi mesi dopo la morte del figlio Dante, ucciso da meningite fulminante. Compose quei versi senza dargli un titolo, formulato a distanza di anni e di cui parla nella corrispondenza di quei giorni. Leggo la sua disperazione in una lettera pubblicata nella raccolta di poesie curata per Feltrinelli da William Spaggiari: “E così mi morì. Mi morì a tre anni e quattro mesi; ed era bello e grande e grosso, che pareva per l’età sua un miracolo. Ed era buono e forte e amoroso, come pochi. E io avevo avviticchiate intorno a quel bambino tutte le mie gioie tutte le mie speranze tutto il mio avvenire: tutto quel che mi era rimasto di buono nell’anima lo avevo deposto su quella testina. Quando mi veniva innanzi, era come se mi si levasse il sole nell’anima; quando posavo la mano su quella testa, scordavo ogni cosa trista, e l’odio, e il male; mi sentivo allargare il cuore, mi sentivo buono. Povero il mio bambino, e povero me: come vuol esser tristo quest’altro pezzo di vita, quest’altro pezzo di vita che io mi ero avvezzato come tutta data a lui e da lui rasserenata e confortata. Mi pareva che dovessimo camminare insieme; io a insegnarli la strada, lui a sorreggermi, finché io mi riposassi, ed ei seguitasse più puro e meno tristo di me”.
Poco prima di morire, nel dicembre del 1906 gli venne conferito il Premio Nobel per la Letteratura, il primo italiano a vincerlo. Le condizioni di salute non gli consentirono di presenziare alla cerimonia di Stoccolma. Gli venne consegnato nella sua ultima casa di Bologna dove la medaglia si trova ancora custodita in una teca, accompagnata dalla pergamena che reca la motivazione: “In considerazione non solamente della sua erudizione feconda e delle sue indagazioni critiche, ma principalmente come omaggio all’energia plastica, a la freschezza di stile e all’impeto lirico che si trovano ne’ suoi capolavori”.
Giosuè Carducci si spense nella sua ultima dimora, circondato dagli affetti familiari e da pareti di libri, il 16 febbraio 1907, dopo una malattia debilitante che lo privò dell’uso della mano destra e che gli rese pure difficile l’uso della parola. Nel giorno dei solenni funerali venne proclamato il lutto nazionale. Il corpo del poeta fu seppellito nel cimitero monumentale della Certosa, lui toscano di nascita ed emiliano di adozione, cittadino onorario di Bologna “alla quale donò tutto se stesso”
Ripercorrendo i suoi luoghi, le tappe tristi della sua esistenza e i suoi stati d’animo, rintracciando pure precisi riferimenti poetici alla mia terra (“isola bella”) e alla mia città natale Agrigento nelle sue Primavere elleniche, ora posso dire di essere un po’ più maturo a entrare nelle profondità di Pianto antico e pronto ad affrontare un esame di Stato incentrato su Carducci poeta, figlio e padre; e anche una seria lettura pubblica, con piena e meditata consapevolezza, col sentimento vero dei suoi versi, con la voce di un uomo profondamente sconvolto nell’animo.