Fondato a Racalmuto nel 1980

I pesci sembrano felici

I racconti di Malgrado tutto

Angela Mancuso
Angela Mancuso

L’immagine del sole che tramonta sul mare gli stringe il cuore. E’ un tramonto estivo come tanti. Di impareggiabile splendore.
La luce è bianca e liquida, e avvolge l’orizzonte con un abbraccio totale e compiuto.
Ogni volta a lui sembra che il sole si fermi per un attimo, un lampo di fissità rubato all’eterno, a contemplare gli affanni umani.

Tu ti ergi glorioso ai bordi del cielo, o vivente Aton!
Tu da cui nacque ogni vita.

Il mare è un velluto, morbido, armonico, corposo e brillante, come quei vini bianchi fini e dorati di cui solo un palato attento può percepire armonie e dolcezze.
Al cospetto di quel mare giallo paglierino gli occhi si socchiudono lievi e sono due fessure antichissime perse nell’incanto di un cielo annebbiato.
Sotto quella luce calda e pigra tutto è bellezza, tutto è ordine. Ma i pensieri sono neri e la pace non scorre nell’anima, ferma com’è nel bagliore di un ricordo che è oltre il silenzio, oltre la terra, oltre il tempo.

“Guarda, papà, decine di pesci”.
“Non ti sporgere”.
“Guizzano veloci, tra le alghe, sembrano felici”.
“Non ti sporgere”.
“Papà…”

La sabbia sottilissima del fondale inventa filamenti variopinti, che possiedono tutti i colori del mondo.
Il mare ha in sé tutti i colori del mondo. E’ una questione di luce, di tonalità sfumate. E’ la forza di una supplica, di una preghiera raccolta un tempo da una fanciulla divina.

Ieri, al ventesimo giorno, scampai al mare color del vino.

A casa ha lasciato una moglie rotta, frantumata, che aspetta affettando cibi, bollendo cibi, friggendo cibi. Aspetta alla fioca luce di una lampadina.
Quando col buio lui rientra, le abbraccia le ginocchia, da vent’anni, perché lei perdoni quelle sue braccia che non furono leste, sicure, salde e forti. Quelle braccia di padre mancato, di padre perduto. Supplice. Ogni sera. Davanti a lei.
Il mare è vita.
Il mare è morte.
Il mare spesso non restituisce. Ha scrigni segreti dove cela e custodisce tesori eterni, viscere di viaggiatori che non hanno mai raggiunto l’approdo.
Il mare respira, dei mille respiri di tutti quelli che ogni giorno lo attraversano, lo nuotano, lo pescano, lo maledicono.
Sono fiati e bocche.
Sono i canti e il vociare dei tonnaroti che all’alba escono in mare per la mattanza, e l’odore è quello del sangue e della morte.
Sono occhi e narici dilatate di clandestini soffocati, accartocciati, strizzati in contenitori galleggianti di legno fradicio e vomito. E il mare è una belva nera che li aspetta. Famelico. Rigonfio.
Sono strilli acuti di bambini nudi e richiami di madri accaldate, pronte, con le tovaglie asciutte, tra onde di abbracci teneri e primitivi.

Da anni ha un amico a dargli conforto. Un compagno che lo aspetta a Maggio, lo saluta a Settembre.
Sulla sabbia leggera sono passi di uomo e passi di cane ed entrambi si riconoscono dall’odore, dalle solitudini, dal gusto di un’amicizia semplicissima e istintiva.
Tra uomo e cane, l’uno accanto all’altro, non si avverte l’urgenza imbarazzata di trovare parole, frasi di circostanza, situazioni comuni che salvino dal silenzio, insostenibile, devastante per gli umani. Quando si incontrano due esseri umani, vivono l’urgenza della parola. Quando si incontrano un uomo e un cane, il silenzio diventa tutto e ci si sprofonda come nel ventre materno.
Ribelle,irrequieto, vitale e sensibile, quel cane dal pelo rosso mogano e gli occhi liquidi e nocciola è tutto ciò che lui avrebbe voluto tornare ad essere.

Guizzano veloci, sembrano felici.

Da quel giorno non è più andato a pescare. Ha lasciato che i pesci continuassero a sembrare felici. Ha regalato la barca e le sue attrezzature. Si è strappato il mare dalla pelle, lacerandosi il petto con le unghie e piangendo sale.
Da quel giorno aspetta che il mare gli restituisca un figlio. Implora invano. Ulisse non tornerà ad Itaca, dal vecchio Laerte. Ulisse ha ceduto, ha sciolto i legami, ammaliato dal canto rapace delle sirene.

Voi, piumate vergini
figlie della Terra, voi
Sirene invoco, ai pianti miei
venite qua, col libico
flauto e con le cetre.

E’ un tramonto estivo come tanti. D’ineffabile splendore.
Un uomo si avvia verso casa, un cane silenzioso ad accompagnarne il passo. In lontananza il vagito di un neonato rinnova la sua pena bianca, ma è un vagito pieno di futuro, di vita, di tempo. Lacrime di tenerezza e di purificazione gli solcano il viso.
Torna a casa.
Ha due ginocchia da abbracciare e un perdono infinito da implorare. Prima che arrivi la notte, quando più acuta, l’assenza, si misurerà col dolore.
E poi, di notte, il mare fa troppo rumore.

Da Il tuo racconto per Malgrado tutto, edizione 2012

 

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