LIBRI Divagazioni intorno a La perfezione delle inclinazioni di Angela Mancuso. La recensione di Roberto Flauto, sociologo dell’Università “Federico II” di Napoli
Tutti i poeti adorano le esplosioni, le tempeste, i tornado, le conflagrazioni, le rovine e i massacri spettacolari. L’immaginazione poetica non è certo una qualità auspicabile in uno statista. (W.H. Auden)
La scrittura è un atto egoistico. È esclusione continua, un perpetuo specchiarsi, un’ammissione di colpa, un atto di revisione, per dirla con Harold Bloom. Direi che solo in questo senso, scrivere diventa poiesis. E quindi travaglio, nascita, possibilità. Nelle pagine de La perfezione delle inclinazioni di Angela Mancuso, la cui dimensione narrativa riesce a far dialogare la necessità del canto e la tentazione del silenzio, c’è tutta la violenza della creazione. Ci sono il dolore del venire al mondo e l’egoismo di chi afferma con forza e decisione la propria identità.
La cifra stilistica di Angela Mancuso aveva già un proprio statuto identitario piuttosto definito. Chiaro, riconoscibile, autentico. Le sue raccolte di poesie – il suo primo amore – sono testi dotati di una fortissima potenza evocativa. I suoi versi sono “consapevoli”, densi, complessi. Era quindi attesa al varco, perché questo è il suo primo romanzo. La prova, a mio giudizio, è stata superata splendidamente.
Ma cos’è questo libro? Su tutto, è un racconto di malinconia a caducità (di quella che Freud attribuiva a Rilke, e quindi c’è subito poesia, perché ci sono assenza, fantasmi, irrequietezze). È una storia fatta di storie, che sono tutti frammenti di un mosaico più ampio e complesso. Il suo cuore indomito, evidentemente. Ecco, solo la scrittura che diventa egoismo rende possibile opere che tocchino davvero il prossimo, perché sono delicate come un tornado, efferate come una carezza. E La perfezione delle inclinazioni lo è. Almeno per me. E non lo dico perché conosco l’autrice, nei confronti della quale nutro profonda stima e sincero affetto. Lo dico perché lo devo a Marco, a Totò, a Strav, a Laura, a Gaetano, a ognuno dei protagonisti, alle passeggiate, ai tramonti siciliani carichi di fuoco e promesse, alle parole che non so pronunciare, alla scrittura.
Il romanzo è delicato e violento, come piace a me. L’ironia presente, che si sviluppa soprattutto grazie alla figura del preside, è un riflesso del vuoto che Marco si porta dentro, una strategia di difesa. Sì, perché Marco, docente di lettere appena trasferitosi a Licata, ha il cuore malato di ricordi e frammenti di futuro, andato perduto insieme alla donna che sa “di pane bruciato e cibo avariato” (parola di Strav, c’è da credergli). Ma quello che Marco si porta dentro è un vuoto paradossale: perché carico di tutte le nascite. Se ne accorge l’uomo ombra, quando ascolta le melodie del violoncello e i versi di Baudelaire. Se ne accorge Laura, quando vede sciogliersi pezzo dopo pezzo la coltre di ghiaccio in cui lui si è rifugiato. Se ne accorge Pina, che trova in questo giovane insegnante una porta e non l’ennesimo muro. Se ne accorge il lettore, pagina dopo pagina, riga dopo riga, metafora dopo sospiro dopo sospensione. Insomma, c’è da perdersi. Sto cercando di dire questo. E ritrovarsi, perché la storia raccontata Angela Mancuso è tanto intima quanto universale: perché è la storia di un uomo (Marco), ma anche la storia dell’uomo (innamorato). E Licata diventa il centro del mondo, diviene universo, una frattura dello spaziotempo. La città è protagonista silenziosa, resta sullo sfondo, si nota appena, ma non abbandona mai il campo visivo, si agita sotterranea come la più inquieta delle anime (un’altra traiettoria egoistica dell’azione poietica). Ecco, appunto, la Sicilia. Mi sono ritrovato a leggere il romanzo in tre momenti diversi: una mattina di inizio dicembre, seduto in villa Bellini, a Catania, sotto un sole tenue e morbido. E il giorno dopo, tutto il pomeriggio, lasciando le ultime venti pagine per il giorno seguente.
È un libro che si legge in poche ore, in realtà (non ha la mole della Recherche di Proust, per intenderci), tuttavia richiede delle pause. O, quantomeno, ne ha richieste a me. Talvolta ho avvertito l’esigenza di fermarmi, o meglio: mi sono sorpreso con la mente altrove, e non perché la lettura non catturasse il mio interesse, ma esattamente per il motivo opposto: sono diventato Marco. E uomo ombra. E don Tano. E ‘za Pina. E ho corso su una mina. E ho sentito tutte le sfumature del color nostalgia. E mi sono innamorato della donna che sa “di pane fragrante appena sfornato e cibo succulento” (Strav, ti voglio come mio biografo). Perché questo è un libro che non si vuol finire. O forse si ha “paura” di finire. Non lo so. Ancora non l’ho capito. Sta di fatto che si tratta di un viaggio. Io che non sono licatese, che non sono nemmeno siciliano, ho sentito il caldo asfissiante dell’estate, e delle altre stagioni che sono sue declinazioni. Ho sentito il sapore del mare siculo mischiarsi all’aria carica di promesse. Il profumo della frittura di pesce che invade l’ambiente. Soprattutto, ho sentito quel vuoto paradossale che Marco si porta dentro (e addosso). Subito, fin dalle prime righe, dai primi gradini che aprono il romanzo. Ogni viaggio, del resto, comincia sempre con un addio.
Si potrebbero poi fare numerosi parallelismi con altri romanzi, o più semplicemente con altri scrittori-insegnanti, da Domenico Starnone ad Alessandro D’Avenia, passando per Daniel Pennac e Paola Mastrocola, per restare nel mainstream, fino ad arrivare ad opere meno famose come Cosa vuoi fare da grande di Ivan Baio e Angelo O. Meloni o Lo splendore casuale delle meduse di Judith Schalansky. Insomma, il romanzo della e sulla scuola, affrontato con stili e approcci spesso molto divergenti (per capirci: dal taglio etnografico alla fantascienza), ha in sé potenzialità infinte. Tuttavia, La perfezione delle inclinazioni non appartiene a questa categoria: perché è una storia di amore, di ri-nascita, di vita che esonda. E viene raccontata con una delicatezza travolgente, a cui non è possibile sottrarsi.
La scrittura dell’autrice licatese è chiara, ma mai banale; oscura, ma mai sterile. A un certo punto Marco assegna un lavoro ai suoi studenti, offrendo loro due tracce, che riassume in due domande: che cos’è l’amore? e poi: esistono i fantasmi? Lì la lettura si è interrotta, ho viaggiato nello spazio e nel tempo, perché questi quesiti, che in realtà sono lo stesso interrogativo, rimandano alle questioni fondamentali dell’uomo (innamorato): da dove veniamo? Chi siamo? Sì, amo? Dove andiamo a nasconderci quando arriva il buio? Forse non è un caso che a queste domande, poco dopo, seguano quelle che forse sono le righe più belle del romanzo. La silenziosa confessione di Marco a Laura, scritta totalmente in corsivo (scelta stilistica che ne amplifica l’impatto). Un amore esplosivo, tempestoso, deflagrante, e muto.
A dire il vero, sono numerosi i momenti in cui si può apprezzare la cura del dettaglio, il gusto per la scelta lessicale e sintattica più adatta, più adeguata, da parte di Angela Mancuso, come quando definisce “perfetto” il pianto di Gaetano. Perfetto. Un aggettivo che apre un mondo. Che sa di poesia. Oppure si pensi all’alternarsi dei versi petrarcheschi alle frasi di Laura. O ancora all’uso dei puntini sospensivi nei dialoghi che i due intrattengono, che sono ancora una volta vuoti paradossali, silenzi che contengono ogni genesi, big bang in attesa. Devo dire che trovo davvero molto efficace, performante, significativo, il suo modo di mettere insieme pensieri, parole, opere e omissioni.
Angela Mancuso si diverte, gioca, e soffre, rischia, si confessa. È un’autrice colta, preparata, che sa usare le parole, assecondandone i bisogni, esaudendone i desideri, placandone la fame. Perché ha ragione Marina Cvetaeva: non si scrive per i lettori (che, come diceva Achille Campanile, sono personaggi immaginari che vivono nella mente dello scrittore), ma si scrive per la scrittura stessa, per poter scrivere ancora. Angela fa questo, intende la scrittura in questo modo. E qui, in questa piega, si gioca la partita tra i poeti e gli scrittori di poesie – che sono due specie animali diverse. Angela Mancuso è una poetessa. E dopo questo romanzo posso affermarlo senza tema di smentita. Leggendo il suo libro, l’ho conosciuta, l’ho inventata. La perfezione delle inclinazioni è un battito egoistico del suo cuore poetico. Ed è per questo che funziona, che fiorisce, che entusiasma. E fa sorridere e fa piangere. Perché c’è la dolcezza della tempesta più impetuosa, c’è la ferocia del bacio più tenero. Una delicata e malinconica storia di amore e di fantasmi.