Fondato a Racalmuto nel 1980

“Se non diventerete come bambini”. Letteratura, scuola, miti dell’infanzia

Il nuovo libro di Salvatore Ferlita. La recensione di Francesco Castronovo

“Se non diventerete come bambini” è un agile volumetto, edito dall’editore Il Palindromo, dove lo scrittore, il prof. Salvatore Ferlita, tratta i temi dell’infanzia nella letteratura, nella scuola, nelle pieghe antropologiche e archetipiche dei racconti popolari; lo studioso ragiona anche sul canone e su alcuni temi di critica letteraria. Dunque, un libro di risulta (p. 11), che accoglie le ricerche e le riflessioni maturate nell’arco di più di un quinquennio di insegnamento presso il corso di laurea di Scienze della Formazione Primaria. Il risultato è un testo che tratta diversi argomenti, ma collegati dal costante riferimento al mondo dell’infanzia, in una lingua semplice e chiara: brevità, varietà e chiarezza sono tre qualità di questo saggio.

Il libro è diviso in due grandi parti: la prima si apre con un capitolo dedicato ai bambini della letteratura: protagonista indiscusso di queste storie è l’orfano, il quale potenzialmente indifeso, perennemente in difficoltà, praticamente isolato, […] è il personaggio che si presta per definizione alla dimensione romanzesca (p. 15). L’assenza di una famiglia e di figure genitoriali rendono questo personaggio aperto alla definizione di un destino, che è il motore dell’azione. Ma questo discorso vale per l’orfano, al maschile; mentre, per quanto riguarda le orfane, l’avventura è tutta domestica (si veda il conflitto tipico delle fiabe, per cui la figlia viene vessata dalla matrigna). La famiglia è un tale impedimento all’azione che, quando presente, deve addirittura essere rimossa, come dimostra il caso de “L’isola del tesoro”, dove il protagonista registra con impassibilità la morte del padre. Di orfani, poi, è pieno il mondo narrativo di Dickens.

Ma questi personaggi che lingua parlano? Perché, se è vero che alcuni grandi scrittori hanno portato sulla scena i bambini, è anche vero che li hanno “fatti parlare e pensare” con la lingua degli adulti. Anzi, con la lingua letteraria degli adulti. Ed è a proposito dello stile che Ferlita traccia una sorta di confine fra gli autori che hanno scritto storie di infanzia ed autori che hanno assunto la prospettiva dell’infanzia o dell’adolescenza. Infatti, scrive lo studioso: Salinger finalmente accantona tutte quelle sciocchezze alla David Copperfield e, come un palombaro, si cala subito dentro alla psicologia di Holden. In poche righe, con un gesto da fuoriclasse liquida l’impianto tradizionale del romanzo mandandolo definitivamente in soffitta. Ma dietro a Salinger si intravede la sagoma di un suo collega di vaglia, ossia Mark Twain (pp. 20-21).

Ma cosa comporta leggere e immedesimarsi nella percezione dei bambini e dei ragazzi? In letteratura, i bambini e i ragazzi sono degli alieni (p. 23). Assumere il loro punto di vista, quindi, è un gesto di straniamento.

Alterità e straniamento definiscono il bambino quale creatura mediana e refrattaria alla rigidità delle definizioni e delle forme. Queste caratteristiche si concretizzano nella metamorfosi, straniamento e alterazione delle forme per eccellenza. Ne sono un esempio la Sirenetta, con la sua metamorfosi in fanciulla bipede; e Pinocchio, sorta di bambino-androide.

Quindi, nella dimensione fanciullesca, ritroviamo spesso il tema della metamorfosi (si pensi alla trasformazione del burattino in bambino), il quale porta con sé anche una carica di mistero e di paura: il perturbante (p. 27) diventa così un’altra caratteristica della fanciullezza. Ne offre un esempio “Il signore delle mosche” di Golding, storia dove un gruppo di ragazzini si ritrova in un’isola deserta, senza alcun adulto: tutto filerà liscio finché i ragazzini non cercheranno di emulare la società dei grandi, passando dall’iniziale eden ad un inferno di battaglie fra clan avversi. Insomma, il fanciullo viene rappresentato non più come naturalmente buono: proprio come gli adulti, può compiere azioni crudeli.

Il secondo capitolo è dedicato alla scuola, intesa come luogo della sofferenza e della costrizione, nel quale Ferlita ripercorre la lunga storia delle rappresentazioni e delle sofferenze dei poveri discenti: si va da un’iscrizione sumera, per passare all’Egitto, fino a Roma, quindi si giunge alle soglie della contemporaneità. Ritroviamo, in questa “concisa lista di ampio respiro”, la presenza dello scrittore favarese, Antonio Russello, citato a proposito di un suo libro, in cui è sentito il tema dell’educazione dei fanciulli, “Giangiacomo e Giambattista” del 1969; insieme al racalmutese Sciascia, che affronta la questione della scuola e dei discenti nelle sue Cronache scolastiche, confluito nella raccolta “Le parrocchie di Regalpetra” del 1956. Il catalogo dei libri che registrano il disagio scolastico continua, ma colpisce la natura del collegamento: il paragrafo precedente si concludeva con una riflessione sulla crudeltà dell’infanzia e quest’altro si apre con la crudeltà di certi sistemi educativi, una sorta di cattività scolastica.

Così, passando da una crudeltà a un’altra, giungiamo al terzo capitolo, che si apre col più crudele dei quesiti: “Dio se ne frega dei più piccoli?” Domanda terribile e provocatoria come poche, specialmente perché, forse, non ammette altra risposta che un doloroso silenzio (per quanto provocatoria!). A questa crudele domanda ne fa eco un’altra, non meno facile da digerire: “Si può avere più pietà dell’Onnipotente?” (p. 51).

Due domande che aprono la questione fondamentale di questo paragrafo: l’anomala possibilità della morte dei bambini.

Da questo argomento, Ferlita prende le mosse per raccontare “Lo spazio di un mattino” di Dario Piombino-Mascali, libro dedicato all’ esistenza assai fuggevole di Rosalia Lombardo (p. 54), la bambina che riposa nelle Catacombe dei Cappuccini di Palermo. Per Ferlita, l’autore riesce a conciliare la precisione dello studioso, dato che si tratta di un antropologo specializzato nello studio scientifico delle mummie, senza rinunciare ai sentimenti e alle emozioni, tanto da definire il lavoro di Piombino-Mascali come amorevole ricostruzione (p. 56) delle pratiche usate all’epoca per esorcizzare la dipartita dei bambini in Sicilia (p. 56).

Naturalmente, non è l’unico testo citato, ma l’autore continua col suo lavoro di documentazione e discussione degli autori, delle autrici e dei testi che riferisce, attingendo alle storie della tradizione popolare e letteraria, quali “La bella addormentata nel bosco” (riannodando il filo della tradizione fino allo scrittore Giambattista Basile), “Biancaneve e i sette nani”, fino a contemplare anche (e, direi, persino!) Charles Darwin, che sperimentò la terribile esperienza della perdita di una figlia, Annie, di dieci anni; vicenda che potrebbe avere avuto, addirittura, un suo peso nelle ricerche e nelle teorie del famoso ricercatore.

Concluso il capitolo, termina la prima parte del libro, e si inaugura una sezione dedicata a questioni più strettamente letterarie.

Il primo capitolo è dedicato proprio alla lettura: sia come pratica solitaria, sia condivisa. Del resto, leggere è un’attività che contempla sempre l’altro: Leggere, dunque, non è per nulla facile: se leggere significa provare a comprendere gli altri, se leggere fa rima con carità verso gli altri. Se leggere ha a che fare con la preparazione al cambiamento (p. 66). Ecco, dunque, perché la lettura diventa difficile: richiede la capacità di incontrare l’altro e la disponibilità al cambiamento. Queste dure “richieste” della lettura, sono possibili, ci dice Ferlita, commentando le parole dello scrittore Orhan Pamuk, nella misura in cui il romanzo – genere votato per eccellenza all’immedesimazione e all’empatia – rende possibile raccontare la propria storia come se fosse la storia degli altri (p. 67) e, viceversa, quella degli altri come se fosse la nostra.

Ma, verrebbe da chiedersi, perché leggere diventa difficile? Il problema è proprio l’età adulta, che introduce il lettore (e in generale gli uomini) in un sistema che inibisce e frena la voglia e la possibilità di leggere, avvisa Ferlita, mentre commenta Roberto Denti (p. 72). Proprio per questo motivo, bisogna riappropriarci del senso della lettura come felicità, non come coercizione (p. 71).

Giungiamo, quindi, nel secondo capitolo, di natura quasi “monografica”: questa parte, infatti, è interamente dedicata a “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile, soprattutto alla luce di una domanda di fondo, che potremmo riassumere nei seguenti termini: “Perché un libro così importante è stato dimenticato e non incluso nel canone degli autori della letteratura italiana?”

In effetti, il “Pentamerone” (secondo titolo dell’opera) conobbe un veloce successo, quando venne scritto in epoca Barocca, per poi essere dimenticato, fino alla sua riscoperta da parte di Benedetto Croce. Certo, l’opera è una raccolta di fiabe straordinarie, aperte all’inventiva più sfrenata e iperbolica, elementi che, forse e ingiustamente, ne decretarono una sorta di successiva svalutazione.

Per capire il valore di questo libro, basta citare un esempio: una delle fiabe più famose della raccolta di Basile è “La gatta Cenerentola”, che racconta una delle storie più diffuse nella tradizione orale dei paesi del mondo. Ora, se la versione più antica è quella cinese, datata al IX secolo, è anche vero che il racconto di Basile rappresenta la più antica versione europea. Ma questo primato non è il solo elemento di lode dell’opera: infatti, Zezolla (nome originale di Cenerentola), nella scrittura di Basile, all’inizio della storia, uccide la prima matrigna con il coperchio di un baule. Fatto straordinario, se confrontiamo questa figura a quella più familiare e certamente meno incline a compiere simili azioni. Infatti, la protagonista della fiaba di Basile appare sin dall’inizio una fanciulla dinamica e intraprendente: anche quando inizia la vessazione praticata dalla nuova matrigna e viene destinata in cucina alla zona del focolare, Cenerentola non ci pensa due volte a riferire al padre le sue richieste, a far sentire le sue ragioni (p. 83).

Ferlita, naturalmente, riferisce altri esempi di storie famose e patrimonio di tutti, ma che presentano una diversa scrittura, anche molto cruenta in certi casi, nella raccolta di Basile. Ma il caso di Cenerentola rende con evidenza la qualità e la caratteristica delle fiabe di questo curioso scrittore.

Ma c’è ancora un dato da riferire: scrive Ferlita, seguendo Salvatore Silvano Nigro, che i racconti di Basile sono una parodia delle novelle di Boccaccio: insomma, una raccolta di Fiabe originale per forma e contenuti, che fa il verso a uno dei capolavori riconosciuti della letteratura italiana. Ecco perché la riconsiderazione di Basile e la rivendicazione di una sua collocazione nel canone diventa una proposta “anticanonica”. Rileggere Basile significherebbe, in pratica, dare centralità alla fiaba e riconsiderare autore, opera e genere, all’interno di un canone che li ha esclusi.

Da un classico dimenticato a un classico sempreverde, giungiamo al terzo capitolo, incentrato sulla figura di Pinocchio: questa volta Ferlita si sposta su un terreno letterario più recente, prendendo in considerazione il libro “Contro Pinocchio” di Aurelio Picca, edito da Einaudi nel 2022, e discutendone le argomentazioni: la critica mossa a Picca si dispiega per gran parte del capitolo, anche se intervallata da riferimenti ad altre opere che si riferiscono al burattino.

Scopriamo, in questo modo, l’importanza di Pinocchio da un punto di vista solitamente ignorato, relativo alla questione della lingua: scrive Ferlita che Collodi meriterebbe, per il suo contributo alla formazione di una lingua colloquiale italiana, di essere considerato eroe nazionale, come il paladino della modernità letteraria (p. 93). Ma Pinocchio è anche il fanciullo per eccellenza, caparbio e testardo: questo aspetto ci riporta al tema della fanciullezza, stavolta in rapporto ai limiti che i fanciulli sperimentano proprio perché fanciulli: infatti, il bambino sperimenta la sua limitazione proprio davanti all’adulto che gli si rivolge “pargoleggiando”, ovvero usando quella forma di comunicazione scimmiottesca e onomatopeica che vorrebbe farsi vicina all’infanzia, quando invece ne rimarca il limite. Limiti, così si conclude il capitolo, che non valgono per l’energico Pinocchio.

Seguono altri due capitoli “anticanonici”: nel primo, Ferlita discute la produzione fantastica di Capuana, considerandola un fatto straordinario, se affiancata alla scrittura delle opere veriste, attente alla descrizione della realtà, per le quali questo scrittore è più noto.

Nell’altro, lo studioso dispiega un’interpretazione inusitata de “La metamorfosi” di Kafka: il famoso racconto viene riletto con la lente della favola, così che la metamorfosi di Gregor Samsa richiama quella archetipica del principe mutato in bestia, mentre la mancanza di una pur pietosa agnizione della sorella – che assumerebbe i panni della principessa alla quale spetterebbe il salvifico gesto di liberazione del principe/Samsa – diventa il bacio mancato, l’occasione perduta, per aiutare il povero fratello, sempre più irretito nella forma del coleottero.

Ma la riflessione su aspetti favolistici in autori notissimi prosegue con “Le favole della dittatura” di Sciascia, nel capitolo successivo: una raccolta che contiene in nuce i temi cari allo scrittore racalmutese, relativi al potere e ai suoi meccanismi di sopraffazione.

Infine, Ferlita dedica l’ultimo capitolo al romanzo post apocalittico “Anna” di Niccolò Ammaniti, pubblicato da Mondadori, nel 2015: in una terra desolata, restano solo i piccoli e i giovani che devono cercare di sopravvivere e di trovare un rimedio a un virus che uccide con l’arrivo della pubertà. Lo studioso procede a ritroso, nei modelli che presentano caratteristiche simili a quelle del libro analizzato, cercando di definire una moderna tradizione del genere, ma anche di individuare le peculiarità della storia di Ammaniti rispetto ai modelli precedenti.

Curioso che un libro sull’infanzia, iniziato con una riflessione sui piccoli protagonisti della letteratura, per di più orfani, si concluda con l’analisi di un libro in cui l’ingresso nell’età adulta sia così rischiosa e incerta, in un mondo fatto di soli orfani.

* * *

A Salvatore Ferlita un riconoscimento dal liceo “Umberto I” di Palermo

Giuseppe Maurizio Piscopo e Salvatore Ferlita (Foto A. Pitrone)

A Salvatore Ferlita, docente universitario e critico letterario di “Repubblica“, sarà consegnato domani alle 12, al liceo Classico Internazionale “Umberto I” di Palermo, un riconoscimento per “la sua costante attività di docenza e per la scrittura creativa”. La consegna del riconoscimento sarà preceduta da una conversazione che Ferlita avrà con Giuseppe Maurizio Piscopo, scrittore e musicista, e Vito Lo Scrudato, preside del liceo “Umberto I”.

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