Il Racconto della Domenica
Francesco irruppe nella nostra esistenza come un temporale d’autunno. Il nuovo anno scolastico era già iniziato da qualche giorno quando sua madre, carica di ansia e apprensione, si persuase ad affidarcelo per un paio d’ore, non prima di aver subissato me e l’insegnante di sostegno di domande e raccomandazioni. Non appena andò via, richiudendo la porta dell’aula alle sue spalle, mi sembrò di sentire il cuore di lei battere fortissimo ma subito fui distolta da quella sensazione, richiamata dalle urla e dal pianto straziante di Francesco che, allora, non possedeva altri strumenti per esprimere i suoi disagi, i suoi dolori, le sue angosce. Gli altri bambini, intenti a scambiarsi cianfrusaglie, parole, sorrisi e qualche dispetto, impegnati a ricucire la complicità del gioco, che la pausa estiva aveva interrotto, in pochi minuti si ammutolirono, raggelati da quell’esplosione emotiva inattesa,estrema e disperata del loro nuovo compagno.Noi maestre confidavamo nell’esperienza, nel registro espressivo dei nostri volti, nella capacità di scegliere le parole-chiave più idonee a infondere fiducia.
Purtroppo, però, non era bastato: il nostro bagaglio culturale sembrava deficitario della specifica competenza da spendere in quella situazione, che ci trovava indiscutibilmente impreparate nel fronteggiare quella spaventosa deflagrazione. Sperando di trovare l’una nell’altra il segnale di una possibile soluzione a quella situazione, che sembrava ci stesse sfuggendo rapidamente di mano, ci guardammo disperatamente negli occhi ma quel segnale non lo trovammo.
Intanto Francesco si contorceva per terra, scalciando come un cavallo imbizzarrito, lanciando urla modulate su acuti così alti da indurre gli altri bambini, uno dopo l’altro, a tapparsi le orecchie. I loro occhi smarriti, in cerca di una spiegazione, incontravano i nostri sorrisi forzati che avrebbero voluto essere rassicuranti ma che, inevitabilmente, tradivano preoccupazione.
Quei giorni dedicati all’inserimento di Francesco nella nostra comunità scolastica, trascorsero come dentro a una tempesta, arrivata a sconvolge i fragili equilibri umani.
A fatica tentavamo di tamponare le falle che si stavano aprendo sotto i nostri occhi, cercando di arginare, come meglio potevamo, la crisi di sfiducia che rischiava di allargarsi a macchia d’olio tra i piccoli alunni: la casa scolastica non sembrava più garantire loro sicurezza, né, tantomeno, un clima sereno in cui sentirsi liberi di esplorare la realtà. L’intensità del dolore espresso da Francesco, sembrava provenire dalle profondità della terra, dove nessuna consolazione è possibile e, forse, proprio a causa di questo comune, seppur vago, sentire, gli altri bambini non si lasciarono quasi mai tentare dal pianto, quasi che avessero rinunciato a quel diritto, per cederlo completamente a chi non aveva altra via d’ uscita, per difendersi da qualcosa che sembrava fare molto male.
I giorni passavano e, nonostante il fermo rifiuto di Francesco di partecipare a qualsiasi attività didattica, il suo pianto cominciava ad essere intervallato da alcune pause, durante le quali sembrava cercare con lo sguardo qualcosa di inafferrabile.
Finché, un giorno, accadde qualcosa che ci sorprese non poco. Non appena entrato in classe, lasciata la mano della madre, si avviò speditamente verso il mobiletto porta zaini e, senza indugio, vi ripose il suo. La madre, anche lei in preda allo stupore, prima di uscire dall’aula provò a dire qualcosa al figlio ma lui non si voltò nemmeno a guardarla.
– Maestra, maestra…Francesco non piange! – esclamò qualcuno.
Fu da quel momento che, nella nostra piccola comunità, ebbe inizio una nuova fase, contraddistinta da diversetappe evolutive. Francesco cominciava ad essere percepito dai coetanei non più come il bambino venuto a turbare la loro quiete ma come il compagno più piccolo che, per crescere, aveva bisogno del supporto e dell’amicizia di tutti. Non fu necessario spiegare come comportarsi perché ciascuno, in maniera del tutto originale, cercava di adattarsi alle modalità insolite che Francesco cominciava a sperimentare per entrare in relazione con gli altri. I suoi occhioni scuri, ombrati da lunghissime ciglia, ora sorvolavano su tutto e su tutti, come fossero alla ricerca spasmodica di qualcosa di prezioso che aveva smarrito. Desideroso (probabilmente) di sgombrare il mondo da tutta la roba “inutile” che lo riempiva e di farsi spazio nella sua misteriosa ricerca, con le sue piccole mani, in pochi istanti, spazzava via ogni cosa si trovasse alla sua portata: via dai banchi, dalle mensole, dai contenitori, niente poteva essere risparmiato dal suo bisogno di fare pulizia.
All’inizio fu un po’ dura per tutti, schivare i suoi gesti rapidi e decisi non era facile.
Francesco aveva imparato a farsi largo tra i compagni, con l’intento preciso di distruggere quanto loro si divertivano a creare. Di contro, armati di santa pazienza, i piccoli recuperavano il maltolto e rimettevano a posto senza lamentarsi, esprimendo semmai un leggero disappunto con aria di tenero rimprovero, di tanto in tanto accompagnato da qualche espressione laconica, quasi a sottolineare l’indulgenza nei suoi confronti, in considerazione di quei primi incauti tentativi di esplorazione della realtà. Quelle correzioni fraterne rappresentarono solo l’inizio dello splendido percorso di crescita che, grazie a quel compagno speciale, avevamo intrapreso.
Francesco cominciava a regalarci i primi sorrisi e a mostrare una certa soddisfazione nel trattenere, finalmente, qualcosa tra le mani ma, purtroppo, tra gli innumerevoli oggetti possibili, la sua sceltaricadde sui capelli di maestre e compagni che, a turno, per qualche giorno, diventavano il suo unico oggetto del desiderio. D’altra parte, il prezzo da pagare per ricevere un suo sorriso, eral’accettazione di quella piccola mania: lui ti guardava, ti sorrideva, ti accarezzava la chioma e poi stringeva i capelli nel pugno, come a voler inglobare tutte le informazioni e le emozioni (a noi sconosciute) che contenevano, per collocarle tra gli oggetti del mondo che aveva iniziato a costruirsi. Era commovente il modo in cui il resto della classe riusciva a gestire quegli attimi, con grande calma e con stupefacente autocontrollo.
–Ok, va bene, stringi ma non tirare, non farmi male.
-Ecco, ti faccio vedere, devi fare così, lascia piano piano.
– E no, così mi fai male… Maestraaa.
Insomma, era evidente che ciascuno si fosse assunto, chi più chi meno, il compito di fargli da tutor, con la consapevolezza che una piccola sofferenza valesse la pena di viverla, se questo poteva aiutarli a diventare significativi per quel bambino che, fino a poco tempo prima, aveva manifestato, insieme allo strazio del suo dolore, indifferenza verso qualsiasi forma di aiuto e un totale rifiuto verso ogni tipo di relazione.
Poi, come ogni anno, a separarci giunsero le vacanze estive e di nuovo, con l’approssimarsi dell’autunno, si riaprì il cancello della scuola.Sebbene un po’ in ritardo rispetto agli altri bambini, questa volta Francesco fu presente sin dal primo giorno, sfoggiando sorrisi che, generosamente, distribuiva alle sue ormai “vecchie conoscenze”.
L’avventura nella nostra piccola comunità dunque ricominciava, promettendo innumerevoli sorprese.
–Maestra, lo sai? Io ho fatto quattro anni– esordiva qualcuno.
–E io ne ho così– diceva un altro, mostrando la manina alzata per indicare con le dita il numero degli anni. Erano tutti così impazienti di raccontarsi che faticavano a rispettare il turno, prima di dire la loro.Francesco osservava silenziosamente, con uno sguardo nuovo, di indicibile bellezza, che da straniero era diventato indigeno! Proprio durante una di quelle nostre assembleemattutine, al primo giro di interventi un po’ caotici, vidi Francesco agitarsi sulla sediolina, finché non alzò una mano e disse: –Io, io…. – mentre con l’altra si batteva il petto, per indicare che era lui, proprio lui che voleva parlare. Il silenzio calò immediato: il momento era solenne.I compagni lo guardavano con ansia e sorrisi sospesi a metà. Non ricordo che cosa disse ma non dimenticherò mai che quei suoi pensieri, espressi con un linguaggio appena comprensibile, sembravano farfalle appena nate che si libravano nell’aria, facendo mostra dei loro straordinari colori. Spontanea e irrefrenabile fu la voglia dei bambini di battergli le mani.
–Bravo, sai parlare! – si complimentò Diego
–Sì, ma non si capisce bene– aggiunse Tonino
–Perché ancora è piccolo…- replicò Morena
–Io invece l’ho capito – dichiarò Ginevra
– Pure io– disse Marco, e poi: – guarda, ti faccio vedere che si capisce… Come ti chiami?
– Non vale! Il suo nome lo sapeva dire pure prima – ribatté Tonino.
Francesco intantoli guardava uno per uno con aria soddisfatta e divertita, intenzionato a non perdersi nemmeno un istante di quell’ esperienza gratificante.
Da quel momento le sorprese furono continue e meraviglia e felicità le costanti con le quali accoglievamo i progressi del nostro imprevedibile amico.
Trascorsi tre anni, Francesco fu pronto a pronto a lasciare la scuola dell’infanzia e a varcare la soglia del grado scolastico successivo. Dunque, nostro malgrado, giunse il momento di salutarci, non senza evidente e incontenibile commozione. Ora a separarci non sarebbero state più le vacanze estive ma la vita stessa, che a volte ci impone di lasciare andare, com’è giusto che sia. Con Francesco avevamo condiviso dolori e gioie, lungo un percorso accidentato in cui insieme si cadeva e insieme ci si rialzava. E adesso? Adesso dovevamo lasciargli la mano e incoraggiarlo a spiegare le sue piccole ali per volare. Tutti noi, grandi e piccini, avevamo compreso che la “normalità” consiste proprio nella diversità di cui ciascun essere umano è portatore: ognuno con le sue peculiarità, le sue zone d’ombra, le sue potenzialità, le sue risorse, le sue capacità. Capacità d’esprimere i propri bisogni, le proprie emozioni, i propri sentimenti; capacità di “leggere” il mondo con originalità, provando a guardare la realtà che ci circonda dai suoi infiniti punti di vista e oltre le apparenze.
Durante quel tempo scolastico trascorso insieme, il vero maestro, colui che ha reso profondamente formativa la nostra esperienza, è stato Francesco. Quello che ci ha insegnato non potrà mai essere raccontato senza risultare inadeguato ma rimarrà impresso in modo indelebile nella mente di chi ha avuto il privilegio di frequentare il suo cuore. La pratica dell’amore spontaneo, donato e condiviso tra i bambini, è stata la via che ha permesso, perfino a noi adulti, non solo di emozionarci ma di sentirci ancora puri, mentre percorrevamo i viali incantati di una dimensione bambina, senza pregiudizi ma tenendo sempre aperte le porte del possibile.
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Racconto secondo classificato ex aequo VI Edizione del Concorso letterario nazionale “Raccontami, o Musa…”, bandito dalla Associazione culturale Musamusìa di Licata, presieduta da Lorenzo Alario, in collaborazione con la testata giornalistica online Malgradotuttoweb. Direttrice artistica del Concorso letterario la prof.ssa Angela Mancuso. Presidente di giuria Raimondo Moncada.