Franz La Paglia ci racconta i suoi 50 anni di attività giornalistica. Una storia professionale intensa, vissuta in Rai e in tante altre importanti testate giornalistiche italiane
Mi lega a Franz La Paglia una amicizia lunga più di 50 anni. Giornalista di lungo corso, Franz, nato ad Agrigento nel 1948, ci racconta la sua intensa storia professionale iniziata nel 1965 con una collaborazione con il quotidiano palermitano del pomeriggio “Telestar”. L’anno dopo inizia a collaborare con il settimanale agrigentino “Sabatosera”, diretto da Domenico Zaccaria che, nel novembre del 1968, lo chiama a collaborare con il quotidiano “La Sicilia”, per il quale, nella seconda metà degli Anni ’70, si occupa anche di politica estera, con particolare riferimento a Malta e Libia. E, in questo contesto, segue il passaggio nel paese nordafricano alla cosiddetta democrazia diretta (con la istituzione dei Congressi del popolo), ispirata ai principi di Rousseau (“La rappresentanza è un’usurpazione della volontà popolare”), cui Muhammar al Qaddafi fa riferimento nel suo “Libro Verde”. Sempre negli anni ’70 avvia collaborazioni con “La Gazzetta del Mezzogiorno”, col settimanale “Tempo”, con “la Repubblica”, con il settimanale “Oggi”, occupandosi prevalentemente di spettacolo. E’ anche stato redattore del gruppo editoriale “L’Espresso”, con Gianluigi Melega. Nel 1985 entra in Rai, realizzando, per quasi 30 anni, servizi per tutte le testate nazionali e internazionali dell’Azienda. Da qualche anno è in pensione.
Ci conosciamo da tempo e so bene che nella tua lunghissima e brillante carriera hai sempre avuto come punto di riferimento un motto di Albert Einstein: “Non cercare di diventare un uomo di successo, ma piuttosto un uomo di valore”. In che misura tutto ciò è stato possibile.
Può essere più semplice di quanto si possa immaginare, ma bisogna volerlo. Mio padre mi diceva sempre: ogni esperienza, anche la più negativa, può diventare uno strumento di crescita; basta imparare la lezione che da questa esperienza si può trarre. Io ho sempre avuto presente questo insegnamento e così, ho acquisito coscienza dei miei limiti e ho cercato, gradualmente, di alzare l’asticella, con quel minimo di umiltà che ognuno dovrebbe avere per acquisire gli insegnamenti delle persone più esperienti e capaci di noi e farne tesoro. Per questo non ho mai pensato alle “vetrine”, puntando più all’essere che non all’apparire. E questo vale per ogni mestiere, dal più umile al più prestigioso. Tieni conto, tanto per fare un esempio, che il nome “Costa bianca” di Realmonte l’ho coniato io negli Anni ’70 sul giornale La Sicilia, e che al lancio della Scala dei Turchi ho dato un contributo considerevole, a partire da 25 anni fa, spiegando anche il perché del nome. Ebbene, non ho avuto alcun ritorno personale. Ma sono contento lo stesso perché ho aiutato l’affermazione di un sito che merita la fama che adesso ha. Ho fatto, in pratica, il mio dovere professionale, con in più una punta di orgoglio per la terra di origine della mia famiglia.
Tutto comincia, dunque, con Telestar. Vogliamo raccontare alle nuove generazioni cos’era quel giornale e perché fu chiamato Telestar
Oggi, con internet, si arriva in tutto il mondo in tempo reale. Ma senza il Telestar, primo satellite artificiale di telecomunicazioni messo in orbita all’inizio dell Anni ‘60, e quelli successivi, forse saremmo ancora all’età della pietra in questo campo. Il nome del satellite diventò una testata giornalista, un quotidiano del pomeriggio nato a Palermo in concorrenza con lo storico L’Ora. Ma durò pochi anni. Io andavo al Liceo “Empedocle” e cominciai a collaborare guidato da uno dei colleghi storici di Agrigento: Umberto Trupiano. Ma erano collaborazioni occasionali, pochi articoli al mese, sia perché ancora dovevo imparare, sia perché gli impegni scolastici mi impedivano di dedicare più tempo al giornalismo. Tanto per fare un’esperienza. E poi non era ancora nei miei progetti principali quello di fare del giornalismo il mio mestiere. Ma avevo voglia di provare.
Il settimanale “Sabato Sera”, un’esperienza giornalistica che ci porta indietro nel tempo di 50 anni. Cosa ricordi. E che città era allora Agrigento
Dai, ci siamo conosciuti proprio con “Sabato Sera”. Considera che a quell’età si ha voglia di sperimentare per potere capire quale potrà essere la tua strada o quali potrebbero essere soltanto dei passatempo. E così, nelle mie prime frequentazioni dell’edicola dei giornalisti di via Atenea, quella di Giugiù Di Leo, conobbi Domenico Zaccaria (altro collega storico) che allora era il responsabile dell’ufficio di corrispondenza del quotidiano La Sicilia, ma anche il direttore del settimanale Sabato Sera. Mi feci la faccia tosta e mi proposi. Allora la città era formata da quello che oggi chiamiamo centro storico, la “morente cittaduzza” di cui parla Pirandello, quell’insieme orrendo di stradine strette tra case fatiscenti di cui parla Alessandro Dumas nel suo viaggio in Sicilia. Ma cominciava ad espandersi soprattutto a sud, quella zona chiamata “sottogas” perché all’altezza dell’istituto Politi c’era una volta una centrale del gas. Parlo delle vie Acrone, Esseneto, Callicratide, Manzoni, Dante. Ricordo che c’era la corsa ai palazzoni dopo secoli di blocco dell’edilizia abitativa dovuta soprattutto a fattori economici. Una corsa fermata poi dalla frana del 19 luglio del 1966 che per fortuna non provocò vittime grazie all’ora legale, introdotta proprio quell’anno, che consentì ad un netturbino, entrato in servizio un’ora prima del solito, di potere dare l’allarme appena in tempo.
Dopo comincia la tua collaborazione con “La Sicilia”, durata diversi anni….
Esattamente. Fu proprio Domenico Zaccaria, dopo la chiusura di Sabato Sera, a chiamarmi, proponendomi di collaborare per la pagina sportiva del mercoledì, dedicata soprattutto al calcio minore e un pochino anche al basket. Eravamo io e Vittorio Alfieri, coordinati da Enzo Alessi, che tuttavia faceva prevalentemente la cronaca giudiziaria. Mi ricordo che fui proprio io a proporre di dare spazio anche a discipline allora minori, tra cui la pallavolo che in quel periodo cominciava a fare capolino nel panorama sportivo agrigentino. Ma, con la voglia di imparare e soprattutto grazie anche ai miei studi universitari di giurisprudenza, nel 1971, quando Enzo Alessi passò al Giornale di Sicilia, Domenico Zaccaria, il mio primo maestro, mi affidò la cronaca giudiziaria. E il passaggio alla cronaca nera fu naturale. A La Sicilia allora c’erano anche Corrado Catania e Santo Carlino. Ma c’era spesso anche Ezio Calaciura, un giovane collega che si occupava di Malta e che, purtroppo, morì nel 1973 in un incidente stradale in Calabria. Da Ezio ho imparato parecchio.
In trent’anni di Rai, tra le altre realtà, hai raccontato tanto la Sicilia. Cosa è cambiato in questi anni
Molte cose sono cambiate, a livello sociale, imprenditoriale, ma anche come mentalità, con una maggiore coscienza antimafia, soprattutto nelle giovani generazioni. Passo di lumaca, invece, in molti altri campi, soprattutto nelle infrastrutture. Consideriamo che per andare da Ragusa a Trapani in treno si impiega più dell’aereo per New York. Girando per la Sicilia però ho scoperto tante piccole realtà che fanno bene sperare per il futuro. E soprattutto è cambiato l’atteggiamento nei confronti dei Beni Culturali: cinquant’anni fa per molta gente erano un freno, un ostacolo ad uno sviluppo che poi si è rivelato fallimentare e dannoso. Oggi, grazie anche a operatori illuminati come Sebastiano Tusa e la sua generazione, per i siciliani sono riconosciuti come una grande risorsa.
Una storia siciliana, tra le tante, che non avresti mai voluto raccontare
Beh, un paio, accadute proprio a due passi da Agrigento: l’uccisione di Rosario Livatino il 21 settembre del 1990 e quella del maresciallo Giuliano Guazzelli il 4 aprile del 1992. Vedi, facendo la cronaca nera per tanti anni, ci si abitua a vedere morti ammazzati. Diciamo che ci fai il callo. Ma ci sono persone con cui hai un rapporto diverso. Considera che con Livatino ero l’unico giornalista agrigentino che poteva permettersi, ovviamente senza abusare, di telefornargli a casa in caso di necessità. E anche con Guazzelli c’era un rapporto che andava al di là della formalità professionale, anche perché uno dei suoi più stretti collaboratori, il maresciallo Aldo Mastrodomenico, era un caro amico di famiglia, sposato con Paola Cortese, compagna di scuola elementare di mia moglie
Malta e la Libia occupano un segmento importante della tua professione…
Diciamo che ho preso l’eredità di Ezio Calaciura. Tramite lui avevo conosciuto il collega maltese Frederick Muscat, con cui ero rimasto in contatto. La politica estera mi aveva sempre appassionato, sin dalla scuola media: le vicende del Congo dopo l’indipendenza, la crisi di Cuba, entrambi all’inizio degli Anni ’60: figurati che a 14 anni già sapevo della base di Guantanamo che tutto il mondo ha conosciuto soltanto dopo l’11 settembre del 2001 in occasione delle vicende delle Torri gemelle. Allora provai a interessarmi alle elezioni politiche maltesi nel 1976, quando fu confermato premier Dom Mintoff, leader dei laburisti. Lo proposi al caporedattore del giornale La Sicilia, Renzo Di Stefano, e lui mi mise alla prova. Così continuai anche dopo la cacciata del contingente Nato da Malta e la nascita dell’alleanza con la Libia di Gheddati. Sulla visita del leader libico a Malta quella volta feci il servizio anche per Repubblica. E per La Sicilia feci anche il servizio sulla visita in Libia di Fidel Castro che non andò a Tripoli, ma a Sebah, in pieno deserto, tremila chilometri a sud della capitale, quasi al confine col Ciad. In quel periodo, tra l’altro, proprio in Libia avveniva una trasformazione organizzativa e politica dello Stato, con la nascita della Jamahiriya, aggettivo sostantivato derivato da jamahir che significa masse. Era sottinteso Governo (delle masse). Quindi la nascita di un sistema (di cui si parla nel “Libro Verde” che mi fu donato dal console libico a Palermo, Abdulrazik Omar Sgennib), che traeva origine dalle teorie del filosofo Rousseau e che avrebbe dovuto portare alla cosiddetta “democrazia diretta”. Infatti, nacquero i congressi del popolo che coinvolgevano tutti i cittadini, ma proprio tutti, partendo dal principio illuminista secondo cui la rappresentanza è un’usurpazione della volontà popolare. In quel periodo cominciai anche una collaborazione (che durò circa tre anni), come corrispondente per la Sicilia, di due settimanali libici, stampati a Malta perché in lingua inglese: Mediterranean news e MedPost.
In sintesi, come sono nate le tue collaborazioni con importati testate come “L’Espresso”, L’Europeo”, “Oggi” e tante altre
Vedi, se un giornale prende un tuo servizio e te lo pubblica, te lo paga ed il rapporto può anche finire lì. Così, come anni prima con Domenico Zaccaria, mi feci la faccia tosta, contattai i giornalisti responsabili del settore che mi interessava, e segnalai gli argomenti, attento però a sceglierli in funzione della linea editoriale. Con alcune testate, come Oggi, L’Europeo, mi sono limitato a qualche articolo. La mia collaborazione più intensa fu invece con testate come Repubblica, che allora aveva per la Sicilia Alberto Stabile, e Attilio Bolzoni, come me, muoveva i primi passi, ma soprattutto l’Espresso, in costante contatto con il responsabile degli Interni, Gianluigi Melega. Fu lui, nel dicembre del 1978, a suggerirmi di trasferirmi a Roma, ma gli feci presente che potevo essergli più utile in Sicilia, tanto che sul giornale, avevo una presenza quasi settimanale. E fu lui ad annunciarmi l’inizio della collaborazione di Leonardo Sciascia. Ridendo mi disse: “Adesso avrai un forte concorrente sul tuo territorio”. La settimana successiva uscì il primo articolo di Sciascia sul teatro chiuso di Racalmuto. Qualche mese dopo entrambi furono eletti in Parlamento col Partito radicale di Pannella. Successivamente il gruppo editoriale mi assunse come redattore. Ma, nel frattempo, ero diventato giornalista professionista, unico, in quel momento, sul territorio, e questo mi aprì le porte della Rai quando si rese vacante il posto di corrispondente.
La tua storia professionale è la dimostrazione che quando c’è la passione e la voglia di fare un percorso non è necessario lasciare la propria terra. Vale anche oggi tutto questo
Secondo me è ancora possibile. Tieni conto che allora per passare un servizio ad una testata nazionale bisognava dettare al telefono ai cosiddetti dimafonisti (l’evoluzione degli stenografi di un tempo), oppure, come facevo io, usare la telescrivente del giornale La Sicilia e da Catania, con lo stesso mezzo, veniva trasmesso a Roma o a Milano. Oggi la tecnologia, l’informatica ci vengono incontro: scrivi un pezzo al computer anche da casa, lo mandi via e-mail ed è arrivato, completo di fotografie o di filmati. Ma ci vuole la volontà di fare un certo tipo di lavoro e soprattutto la mentalità che ti consenta di avere notizie di prima mano o trovare all’interno di una notizia, apparentemente insignificante, lo spunto per lavorarci sopra. Bisogna, comunque, valutare bene la linea editoriale e cercare quegli avvenimenti che possano interessare a una testata più che ad un’altra. Diciamo che, come in tutti i mestieri, ci sono quelli capaci di fare un certo tipo di lavoro (e ne conosco un bel po’), anche restando nella propria terra.
Ad un giovane che vorrebbe intraprendere la professione di giornalista, Einstein a parte, e tenuto anche conto della crisi che attraversa il settore, quali consigli ti sentiresti di dare
Io penso che se si combinano passione, volontà di imparare, umiltà e intraprendenza, i risultati, prima o poi, arriveranno. Certo, fare copia-incolla coi comunicati o aspettare che ci sia la conferenza stampa non serve a niente. Tutti potremmo fare i giornalisti. Ma ci vuole un ingrediente particolare, come nelle ricette di cucina, per diversificare un piatto dall’altro aspparentemente simili: la curiosità. La curiosità di capire quello che ci sta intorno, il perché succedono certe cose. Questo vale per tutto il lavoro giornalistico dalla cosa più banale ai fatti più importanti. A volte proprio le cose che sembrano banali, se ci rifletti e approfondisci, ti possono portare a realizzare un reportage di peso.
Qual è la tua valutazione sul ruolo dell’informazione oggi nel nostro Paese, e non solo, tenuto anche conto delle parole pronunciate dal Papa a riguardo: “Stranamente, non abbiamo mai avuto più informazioni di adesso, ma continuiamo a non sapere niente…”
Devo dire che ha ragione: spesso vediamo che anche testate nazionali, soprattutto i telegiornali, più che informarci, si limitano a fare da cassa di risonanza dei vari personaggi, dando risalto prevalentemente ai cosiddetti “post” sui social, oppure utilizzando gli inviati che, diventando i personaggi davanti alle telecamere, di fatto mettono in secondo piano gli eventi. Per fortuna non è sempre così, ma questo metodo, oggi, è diventato prevalente. Mettersi davanti alla telecamera può starci, ma per pochi secondi, giusto per far vedere che in quel posto ci sei andato e che il servizio non lo hai fatto a tavolino mandando soltanto l’operatore Invece vediamo dirette alle 7 del mattino davanti ai palazzi della politica e del governo ancora praticamente vuoti. Diceva Biagi: la radio ti dà la notizia, la televisione te la fa vedere e il giornale te la spiega. Ebbene, molto spesso vediamo più gli inviati che le immagini relative alla notizia. E poi quest’uso sproporzionato di termini tecnici, sigle o, peggio ancora, l’inglesizzazione di tutto. Figurati che adesso anche da noi si dice “Rascia” invece che Russia, “midia” invece di “media” che è latino e non inglese, “saiber” (così lo pronunciano) invece di “ciber” che è greco. E nascono le barzellette: uno dice ad un amico: “hai visto a quanto è arrivato lo spread?” e l’altro risponde: “Perché il Dash si può comprare più?”. Io non sono contro l’uso delle parole straniere. Non sono come i francesi che, ad esempio, dicono Merkèl invece di Mèrkel. Ma non bisogna abusare, soprattutto con parole che inglesi non sono, come sponsor che è latino e al plurale non fa sponsors ma sponsores e non significa finanziatore, ma garante. Così come excursus non significa racconto, ma divagazione, cioè l’uscita momentanea dal corso di un racconto per poi rientrarvi. Recentemente ho sentito un personaggio nazionale dire “coronavairus” invece che “coronavirus”
La tua valutazione sui social
Non so fare una valutazione perché non ci sono mai entrato: non ne ho mai sentito la necessità. Sono convinto, però, che, come per ogni cosa, anche in questo campo ci siano aspetti positivi e negativi. E come per tutto, non bisogna mai generalizzare e sottolineare soltanto le cose brutte.
Un giornalista che per te è stato un importante punto di riferimento
Non uno, ma diversi, considerato che ho fatto quotidiano, periodico, radio e televisione. Beh, diciamo che il maestro, quello cioè che ti dà le fondamenta su cui costruire poi l’edificio, è stato Domenico Zaccaria. Poi, sempre a La Sicilia, Candido Cannavò (diventato successivamente direttore della Gazzetta dello Sport), Pippo Fava, Nino Milazzo (che è stato anche vice direttore del Corriere della Sera). All’Espresso Gianluigi Melega. In Rai Marcello Bandieramonte, Giovanni Campolmi, Antonio Maria Di Fresco (poi caporedattore a Roma) e Nuccio Dispenza (che ha concluso la carriera da vice direttore prima del TG3 e poi del GR1). A questi aggiungi alcuni colleghi dei TG e dei GR nazionali con cui ero spesso in contatto e con cui mi sento ancora adesso, seppure per gli auguriper le feste.
Torniamo ad Agrigento, la tua città. Ci hai raccontato cos’era negli anni Sessanta. Se dovessi raccontarla oggi….
Beh, è cambiato moltissimo dal punto di vista urbanistico. Adesso è un territorio vastissimo. Oltre quella che era una volta la città, oggi abbiamo diverse realtà periferiche molte delle quali potrebbero anche reggersi da sole: dal Villaggio Mosè-Cannatello a San Leone-villaggio Peruzzo, da Fontanelle a Villaseta-Monserrato. Diciamo diversi chilometri per raggiungere il centro o per andare da un quartiere all’altro. Ma mi ricordo di avere letto che quando cambiarono il nome da Girgenti ad Agrigento, Pirandello, scendendo dal treno alla stazione bassa, disse: “Siamo ad Agrigento”. Poi si guardò intorno e aggiunse: “… ma sempre Girgenti è”.
Stai lavorando a “4 mila anni di storia dello zolfo”. Anticipaci qualcosa….
Certamente. Noi viviamo nel cosiddetto bacino gessoso-zolfifero. Un’area più grande di un terzo della Sicilia. Le ricerche archeologiche di Giuseppe Castellana, negli anni ’90 del secolo scorso, portarono alla scoperta della più antica industria zolfifera del Mediterraneo. Una società mista tra Sicani ed Egei (progenitori dei Micenei), già nell’età del bronzo che estraeva, raffinava ed esportava lo zolfo in Medioriente. Poi, attraverso i romani, e fino all’800 quando nacquero le ferrovie proprio in funzione dell’esportazione dello zolfo. Adesso, con le raffinerie di petrolio, lo zolfo è uno scarto di lavorazione per cui è diventato antieconomico continuare ad utilizzare le miniere che oggi sono considerate un bene di archeologia industriale.
Mio caro Franz, se dico “I Falchi” tu cosa aggiungi…….
Fu un’esperienza splendida alla quale seguirono alcuni anni di attività gratificante. Eravamo in quattro: io alla chitarra, Luigi Ruoppolo al basso, Giuseppe Greco alla batteria e Filippo Di Benedetto (che, purtroppo, oggi non c’è più) alla tastiera. Considera che fummo noi “Falchi” a fare la prima “Messa beat” in provincia di Agrigento, il 15 maggio del 1969 all’interno della chiesa di Santo Spirito, per iniziativa dei giovani universitari Cattolici, allora presieduti da Luigi D’Angelo che poi sarebbe diventato il presidente del tribunale di Agrigento. Suonare e cantare i brani della messa, alternandoci con le suore di clausura, fu una sensazione unica. Poi, all’inizio degli anni ’70 ci sciogliemmo perché ognuno seguì la sua strada.
E se dico Silvana……
Beh, 47 anni della mia vita. Facemmo gli esami di maturità nella stessa commissione nel 1968. Ma poi ci perdemmo di vista e ci ritrovammo per caso sul treno Agrigento-Palermo un anno dopo. Allora il viaggio durava tre ore. Hai voglia di chiacchierare con tutto quel tempo. Scoprimmo di avere molti interessi in comune e da lì cominciò il nostro rapporto che si è concluso nell’ottobre del 2016, quando un male raro, veloce e violento me l’ha portata via. Eravamo come due facce della stessa medaglia: ci integravamo a vicenda e molte cose le ho imparate da lei che era la mia prof. personale a disposizione 24 ore su 24. Lei insegnava filosofia, psicologia, sociologia, ma il suo forte era la storia: una specie di enciclopedia ambulante. Ed anche una divoratrice di libri, dai gialli d’autore alla saggistica, dalla politica alla narrativa, persino la fantascienza, quella seria però. Ed era appassionata anche di geologia, con particolare riferimento a vulcani e terremoti. Figurati che nel suo cellulare ci sono le relative applicazioni che si aggiornano in tempo reale. A 14 anni aveva già letto “Guerra e Pace” e Carlo Marx e leggeva regolarmente “L’Espresso”, allora formato quotidiano. Sosteneva che la cultura deve essere a 360 gradi e che ogni scrittore, ogni musicista, ogni artista va valutato nel contesto storico e culturale in cui è vissuto e che sicuramente, fuori da quel contesto, avrebbe prodotto altro, seppure di livello simile. E poi ci accomunava anche la passione per gli animali: attualmente ho in casa una gatta e nel giardino sei cani, tutti meticci, alcuni trovatelli. E persino in cucina ci integravamo a vicenda.
Per concludere. Cosa ti hanno lasciato quasi 50 anni di giornalismo….
Mi hanno arricchito parecchio. Ho incontrato di tutto, anche personaggi che, nel bene o mel male, fanno parte della storia e non soltanto italiana. Esempio: Moshe Dayan, uno dei fondatori dello stato di Israele ed eroe della cosiddetta ”guerra dei 6 giorni” (5-10 giugno 1967), venuto ad Agrigento perché appassionato di archeologia; Renato Curcio, fondatore delle Brigate Rosse, incontrato a Trapani al processo per l’uccisione di Rostagno. Ma anche personaggi del mondo dello spettacolo, dello sport, della scienza (gli scienziati che ogni anno si riuniscono a Erice) e scrittori come Camilleri, Sciascia per citarne alcuni. Anzi, Leonardo Sciascia l’incontrai parecchie volte nella redazione de La Sicilia ad Agrigento, accompagnato da Alfonso Zaccaria, fratello di Domenico, di cui era grande amico. E in redazione ci facevamo grandi chiacchierate. Questi 50 anni mi hanno anche consentito di girare in lungo e in largo la Sicilia e scoprire che, anche dal punto di vista paesaggistico, la nostra Isola è come un continente: da una zona all’altra tutto cambia. Abbiamo tante realtà e tutte notevoli e interessanti. Ma anche quando sono stato a lavorare a Malta, a Roma o in Basilicata ho cercato di fare tesoro di quelle esperienze. Diciamo che la strada è stata un’ottima scuola che, tra l’altro, mi ha insegnato a usare un linguaggio quanto più semplice e comprensibile possibile, per potere arrivare a tutti, dal plurilaureato a quelli che hanno appena la licenza elementare e mi ha fatto capire che se vai sul luogo in cui c’è stato un evento, hai la possibilità di fare una verifica approfondita. Quante volte mi è capitato di arrivare in un posto e i fatti erano diversi da come mi erano stati segnalati. E io più che un giornalista d’assalto, amo definirmi giornalista d’asfalto.
Da Malgradotuttoweb, 7 marzo 2020