Fondato a Racalmuto nel 1980

“La Piccola Atene di Sicilia”

Così Leonardo Sciascia definì Caltanissetta. Gli anni in cui la città era un laboratorio intellettuale, dal quale verranno fuori le prime coscienze antifasciste, fino alla rinascita dei partiti democratici in Sicilia all’indomani della Seconda guerra mondiale. 

Nel nostro fotomontaggio una veduta di Caltanissetta e Gaetano Savatteri. Le foto sono di Angelo Pitrone

« – Caltanissetta!..

Questa parola gridata dai conduttori, mentre il treno – dopo una corsa di circa venti minuti attraverso un paese brullo, montagnoso, poco piacevole, nel quale, vicini o lontani, si vedono fumare i calcheroni delle solfare – si ferma davanti a un discreto decente fabbricato di stazione, ci rende avvertiti che siamo giunti alla meta. In un attimo le vetture sono vuote e quella ventina di persone che ne scende si accalca all’uscita.

Un bel viale in dolce rampa dalla stazione mette alla città, che si stende in gran parte su di un’altura di fronte alla stazione stessa. L’aspetto, diremo così, panoramico della città non è gran cosa: ma basta però a dileguare quelle poco liete prevenzioni di cui verso questa troppo dimenticata o troppo calunniata, ma pur sempre gentile città siciliana, corrono per buona moneta fra i viaggiatori…di commercio specialmente.

…Dalla piazza del Duomo diramano altre vie, meno belle di quella della stazione; animate sempre da una popolazione vivace, rumorosa, che passa i due terzi della propria vita sulla strada, sulle porte, ai balconi e alle finestre. Nulla però, di tutta Caltanissetta, di monumentale, di caratteristico, di speciale, che faccia distinguere questo capoluogo di provincia dal maggior numero delle città interne e secondarie dell’Isola. In Caltanissetta notasi soltanto una maggiore pulizia, una più accurata edilizia, una certa tendenza a rimodernarsi, che non trovi in tante altre delle popolose città siciliane di provincia, E questo, dato un paese afflitto da tante crisi com’è la regione che circonda Caltanissetta, non è poco».

Al giornalista emiliano Gustavo Chiesi così si presentava Caltanissetta nel 1892 quando diede alle stampe la sua Sicilia illustrata, diario di un lungo viaggio per le città e i paesi dell’isola da un trentennio annessa all’Italia, ma che gran parte degli italiani disconosceva, considerandola un luogo esotico o addirittura incivile. Al capoluogo nisseno Chiesi dedica in tutto quattro pagine, ben poca cosa rispetto ai lunghi capitoli occupati dalle descrizioni di templi e rovine di Agrigento o Siracusa. Ma il piglio cronachistico e un po’ sociologico di Chiesi, repubblicano, anticrispino, giornalista giramondo, arrivato in Sicilia su invito di Napoleone Colajanni, gli danno uno sguardo che non si ferma solo alla storia. Nelle sue brevi note trova il tempo di fornire cifre che fanno rabbrividire: «Secondo il censimento del 1871, la provincia di Caltanissetta contava il 91,66 per cento di analfabeti; questa media discese nel decennio successivo – censimento 1881 – all’86,50 per cento, cioè 230.430 analfabeti, dei quali 109.899 maschi e 120.531 femmine; cifre che dovrebbero coprire di rossore i nostri uomini di stato, i nostri politici, e riempirne l’animo di tristezza, di dolore, se davvero costoro avessero coscienza del loro dovere, e carità sincera di patria».

Nelle stagioni successive, Caltanissetta non è troppo dissimile. Capoluogo zolfifero importante, centro di contrattazione, smercio e commercio dell’oro giallo siciliano che in quegli anni dalla Sicilia si diffonde in tutto il mondo, malgrado questo ruolo nevralgico non perde la sua aria di città disadorna, sonnacchiosa, coperta di polvere e di malinconia. Sia pure ricca di caffè, di circoli, brulicante di gente della città o della provincia, è sempre un capoluogo dell’osso della Sicilia, così dissimile da quella che il meridionalista Manlio Rossi Doria, definiva la polpa, cioè la fascia costiera densa di vegetazione lussureggiante e città frenetiche come Palermo o Catania. E per chi veniva da Catania, il raffronto doveva sembrare stridente.

Forse con questo spirito arrivò quel catanese che, in piena crisi ideologica, alle prese con dubbi sempre più divoranti sul suo fascismo della prima ora, scelse Caltanissetta per appartarsi dai successi romani. Vitaliano Brancati, già autore affermato, fra il 1934 e il 1937 approda all’istituto magistrale di Caltanissetta, dove insegna. Da qui spedisce le sue corrispondenze all’Omnibus di Leo Longanesi. E a Caltanissetta ambienta uno dei suoi racconti più amari e tormentati La noia nel ‘937, ricostruendo attraverso il personaggio di Domenico Vannantò il suo travaglio politico e culturale, il suo progressivo sganciamento dalla dittatura fascista. Dice Brancati che Vannantò si annoiava, «passando da una noia avida e feroce, che divorasse quanto c’era all’intorno di odioso, a una noia sorda e plumbea, in cui si spegnesse, come grido nella nebbia, quanto c’era di vanitoso e petulante, a una noia lugubre e nera, che avvolgesse, nel pensiero castigatore, quanto c’era di stupidamente giulivo». Vannantò provava fastidio per tutto e per tutti; in particolare per se stesso.

“S’era fermato a Caltanissetta”, scriveva Brancati, “perché aveva subito intuito che qui la noia toccherebbe un punto che altrove non aveva mai sfiorato. La cittadina di pietra gialla, sospesa su una squallida pianura; l’albergo affacciato sulla piccola stazione da cui trenini affaticati gettavano ogni tanto uno stridulo grido; i portoni chiusi di prima sera, ai piedi dei quali i cani roteavano su se stessi cercando di mordersi la coda; le nuvole che passavano di gran corsa, cacciate da un vento che non aveva tregua; la statua del Redentore in cima a un colle su cui piovevano gli sguardi dei carcerati dalle finestrine di un casamento livido; le fabbriche di chitarre ai piedi di vecchie chiese; il mantello del federale zoppo nella nebbia del tramonto; gli avvocati che gesticolavano davanti al portone di casa, mentre sul loro capo, stesa a un filo tra balcone e balcone, la loro camicia gesticolava anch’essa; le conferenze sull’impero, le paoline…cosa gli mancava per portare la noia al grado dell’esultanza?”

Era veramente così Caltanissetta? Forse lo era nei cupi e lucidi pensieri di Brancati. Forse lo era così come lo sono molte piccole città di provincia, in ogni continente e a ogni latitudine. Ma proprio negli stessi anni, nello stesso istituto magistrale dove Brancati insegnava, studiava un ragazzo proveniente da Racalmuto. Si chiamava Leonardo Sciascia e ricorderà sempre una realtà un po’ diversa: «Verso il 1935-1940, Caltanissetta era una piccola Atene, non fosse che perché in quel periodo di onagrocrazia, cioè dominio degli asini, come diceva Benedetto Croce, un giovane poteva incontrare come insegnanti Luca Pignato, il poeta protestante Calogero Bonavia, padre Lamantia, Aurelio Navarria, Luigi Monaco, Giuseppe Granata: nomi che per molti non dicono nulla, ma per me ed altri della mia generazione sono stati, direttamente o meno, dei maestri». Da questa Caltanissetta, laboratorio intellettuale, verranno fuori le prime coscienze antifasciste, fino alla rinascita dei partiti democratici in Sicilia all’indomani della Seconda guerra mondiale.

Ce la racconta così Emanuele Macaluso, nisseno, uno dei fondatori del partito comunista in Sicilia, a lungo esponente di spicco della sinistra italiana, nel suo libro 50 anni nel Pci: «Due grandi caffè si contendevano una clientela esigente e i baristi che facevano l’espresso erano grandi artigiani: ne ricordo due contesissimi, Di Bartolo e Falzone. La piccola borghesia che frequentava quei caffè viveva in dignitosa e miserabile distinzione dai lavoratori manuali. Tuttavia, in questa città meridionale, periferia dell’impero, c’era un fermento politico e culturale, c’era chi si interrogava sulle sue condizioni. Era una città che cercava una sua identità, una sua vita sociale e intellettuale e, dopo la Liberazione, conobbe una vivace attività politica».

Emanuele Macaluso ricorda la città che, all’indomani della Liberazione, vide rinascere il Pci e la Dc, dove si gettarono le basi politiche della vita politica della Sicilia uscita dal fascismo e delle istituzioni dell’autonomia regionale. Città che palpitava delle tensioni sociali legate alla terra, alle zolfare e anche delle tensioni intellettuali della nuova Italia.

Ma era una bella Sicilia quella di Caltanissetta? Rispetto al canone turistico, forse no. Era una Sicilia forse che ricordava ancora quella che aveva descritto, con sottile perfidia, Luise Hamilton Caico, signorina inglese precipitata per matrimonio in provincia di Caltanissetta, a Montedoro, alla fine dell’Ottocento, armata di alcune idee femministe e di una macchina fotografica. Aveva girato in lungo e largo la provincia, accompagnata dai campieri armarti della famiglia del marito Eugenio Caico, e dopo avere scoperto certe abitudini medievali, aveva consegnato alla stampe un libro di memorie di viaggio, intitolato Sicilian ways and days: con qualche episodio a effetto, denso di stupore e sconcerto, come questa scena colta davanti a un abbeveratoio a Serradifalco: «Le donne, in fila aspettavano il turno per riempire le brocche. L’apparizione di una straniera munita di macchina fotografica provocò meraviglia e sbigottimento. Giusta reazione, se si pensa che in questi paesi il massimo dell’indipendenza a cui una signora può aspirare consiste nell’andare in chiesa, avvolta in uno scialle da capo a piedi, e mai sola ma sotto la stretta sorveglianza della propria cameriera».

Insomma, lo stupore di Louise Hamilton Caico e la noia di Vannantò, ci restituiscono aspetti diversi di Caltanissetta e provincia, spesso sfuggenti per l’occhio che va alla ricerca del pittoresco stereotipo siciliano. Ma forse occorre un maggior esprit de finesse per cogliere l’essenza di questa Sicilia dell’interno, distante dalle rotte del Grand Tour. Bisogna essere “uomini dello zolfo” e provenire dalla “terre dello zolfo”, come diceva Vincenzo Consolo, per apprezzarne paesaggi, scorci, ritrosie. Sapeva cogliere queste venature profonde un uomo come Sciascia, anche lui “uomo dello zolfo” che proprio allo zolfo – alla sua epopea, alla sua narrazione e alla sua fatica – attribuiva l’esistenza di una letteratura siciliana, allo zolfo, alla storia sociale e commerciale delle zolfare in Sicilia, al punto da tracciare una linea di scrittura che connetteva Verga a Pirandello a Rosso di San Secondo a Di Giovanni fino ad arrivare allo stesso Sciascia e a Camilleri – tutti provenienti da famiglie che nell’Ottocento e nel Novecento avevano avuto a che fare con le zolfare, il lavoro nelle zolfare, lo sfruttamento dello zolfo e il suo commercio.

Solo un “uomo dello zolfo”, cresciuto nelle “terre dello zolfo” – di cui Caltanissetta è, appunto, il capoluogo – può comprendere la bellezza ora brusca ora languida che queste terre esprimono.

«Sicilia interna, Sicilia arida» fa dire Sciascia a un suo personaggio ne Il mare colore del vino, di fronte a un paesaggio costiero spettacolare. «Ma, intendiamoci, ha una sua bellezza: non come questa che toglie il respiro; una bellezza che ti prende lentamente, o più quando se ne è lontani, nel ricordo… Qui ci vuole poco a dire che è bello, anche un cretino se ne abbaglia subito; ma a Nisima ci vuole tempo, ci vuole intelligenza… É un’altra cosa, insomma».

Ecco, Nisima è forse Caltanissetta (molto probabilmente, ché Sciascia vi abitava quando scrisse queste parole). Ma per capirlo, di fronte alle immagini e alle parole di questo libro, ci vuole tempo. Ci vuole intelligenza

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