La gratitudine non si può confezionare, infiocchettare e recapitare a domicilio. Deve venire fuori dal nostro cuore.
Sono nata nel 1969. Sono cresciuta negli anni in cui un sano ceffone era culturalmente accettabile; i no decisi erano di gran lunga più numerosi dei sì; i vestiti erano quasi sempre riciclati, smessi dai fratelli più grandi e passati ai più piccoli a prescindere dal genere; il giocattolo più costoso e desiderato dalle bambine era Ciccio Bello, la pista del trenino Lima quello per i maschi. Erano gli anni in cui se ti facevi male tua madre ti dava il resto; se i professori ti richiamavano avevano sempre ragione; se provavi a ribellarti finivi automaticamente in punizione.
Erano gli anni in cui diventavi grande quando ti permettevano di giocare sotto casa, ti svitavano le rotelle della bici, ti permettevano di andare a comprare il pane da solo, o di ritirare una prescrizione dal medico. Erano gli anni in cui non c’erano progetti mirati ed attività programmate per educare alla sana competitività.
Bastava scendere sotto casa e improvvisare una partita a palla avvelenata, una gara con le bici, un giochiamo ad “ammucciarè”. Per i maschi erano sufficienti quattro latte per delineare due porte, un Super Santos e i campionati di calcio di quartiere prendevano il via per vedere la conclusione solo quando il pallone scoppiava o si bucava. Con un gesso e un sasso ci potevi giocare per interi pomeriggi alla campana, mentre nelle giornate piovose bastavano un foglio di carta e una matita per trascorrere un tempo interminabile giocando a “Nomi, Cognomi, Città, Animali e Cose”. I nostri giochi non costavano nulla, avevano regole chiare, insegnavano tante cose ed educavano alla competitività.
Le ginocchia sbucciate, i bernoccoli, le ferite, le contusioni e qualche arto rotto erano considerati trofei di guerra di cui andare orgogliosi. Nessuno denunciava nessuno se il proprio figlio si faceva male. E se per caso qualche mamma sentiva i picciliddi litigare, si affacciava dal balcone e gridava: “Subito a casa!” E a casa con buona probabilità le prendevi perché la colpa era sempre tua.
Erano gli anni in cui le mamme preparavano la pasta al forno per andare al mare, sfornavano torte per i compleanni, cucivano i vestiti di Carnevale e ridipingevano le pareti di casa quando ce n’era bisogno. Erano gli anni in cui le mamme facevano le mamme: crescevano i figli, mantenevano le relazioni con i parenti e il vicinato, lavoravano fuori e dentro casa e non erano mai stanche. Erano mamme che di una lira ne facevano due e che ti insegnavano che qualcosa da parte andava sempre messa per le situazioni di emergenza. Erano le mamme che tenevano negli armadi, perfettamente inscatolati, una montagna di pigiami e biancheria intima, perché se c’era da andare in ospedale tutto doveva essere pronto.
Erano le mamme che si premuravano sempre che i figli indossassero calze e mutande pulite prima di uscire perché in caso di incidente non si sarebbero mai permesse di farsi “cadere la faccia a terra” se finivi in ospedale. Erano mamme che difficilmente abbracciavano i loro bambini, che non dichiaravano né privatamente né pubblicamente l’amore per i loro figli. Erano mamme distanti ma presenti, capaci di fare rispettare le regole, di educare al sacrificio e al rispetto, ma non alla rassegnazione. Ti incoraggiavano ad andare avanti, a rialzarti quando cadevi, a tentare ogni prova, a sfidare la sorte.
“Tutto si ottiene con il sacrificio. Mai arrendersi”, erano gli imperativi con cui ci hanno cresciuti. La mobilità sociale, ovvero diventare qualcosa in più dei propri genitori era l’obiettivo primario nei processi educativi. Nessuno seguiva teorie pedagogiche studiate a tavolino, ma se tuo padre era muratore, tu dovevi studiare perché da grande dovevi diventare geometra o ingegnere. Se tua madre faceva la casalinga tu avevi il dovere di impegnarti per diventare maestra, infermiera, medico. Le nostre mamme non avrebbero mai permesso che i figli seguissero le orme del padre o fossero relegate a vivere una vita da mogli e madri. Lo studio permetteva la realizzazione professionale anche a costo di abbracciare il detto di “Cu nesci arrinesci”. Se studio non ne volevi andavi dalla sarta o dalla parrucchiera, dal meccanico o dal falegname, ma a casa a bivaccare non ci rimanevi.
Le nostre vacanze studio erano un tantino diverse da quelle che conoscono i nostri studenti: d’estate si imparava l’arte, perché l’arte serve sempre. Le officine meccaniche e di elettrauti, i saloni per barbieri, le sartorie, le parrucchiere, i bar, le falegnamerie si arricchivano di forza lavoro. Oggi lo chiamiamo lavoro nero. Negli anni Settanta significava imparare un mestiere, mettere qualcosina da parte, avere contezza del valore del denaro.
Ecco, le nostre mamme, con una semplice licenza media o elementare, hanno anticipato le linee educative che Paolo Crepet porta in giro nelle sue conferenze: “Ai nostri figli deve sempre mancare qualcosa. Perché se hanno tutto, che motivo hanno di desiderare, di migliorare, di sognare?”
Le nostre mamme, seppur con metodi oggi non pienamente condivisibili, ci hanno insegnato a sognare, a desiderare un futuro migliore, a lottare per ottenere il meglio che la vita potesse offrirci, a non arrenderci di fronte ad una sconfitta. I complessi, le ansie, le insicurezze, anche se palpabili, non erano giustificabili, anzi rappresentavano sfide da superare. Se non riuscivi in qualcosa tua madre ti ordinava di riprovarci ancora sino a quando non ottenevi un risultato positivo. Le frustrazioni irrobustivano il carattere, le sconfitte ti aiutavano a tirare su le spalle, le delusioni ti spingevano a cercare nuove opportunità.
Queste erano le nostre mamme: semplici, umili, decise, immense. Il loro amore verso i figli non era un amor fatto di “Gioia mia”, “Tesoro Mio”, “Amore mio”. Era un amore fatto di esempi, concretezza, regole, educazione e rispetto. Le loro preoccupazioni si manifestavano solo quando non mangiavi perché stavi male. Diversamente, se il tuo rifiuto per il cibo era legato a preferenze alimentari, la loro risposta era: “Se hai fame mangi, altrimenti niente”. A quel punto eri ad un bivio: andare a letto morto di fame o mangiare ciò che non ti piaceva. Perché era quello che la mamma aveva preparato, che ci si poteva permettere di mangiare, o che faceva bene mangiare.
Insomma, a rivederle adesso le nostre mamme non erano per niente male. Erano un porto sicuro in cui ritornare, una spalla a cui potersi appoggiare, un sportello psicologico gratuito da consultare, un personal trainer plurispecializzato su cui contare.
Per poter ricambiare quanto hanno fatto per noi non basterebbe una vita. È vero, non ci hanno mai chiesto nulla. Non ci chiederanno mai nulla. Ci hanno sempre giustificati per le nostre mancanze, le nostre assenze, le nostre dimenticanze. Lo hanno fatto e continueranno a farlo perché sono mamme.
Purtuttavia, c’è qualcosa che ognuno di noi può e deve fare. È qualcosa che non costa molto, che non ha prezzo. Basterebbe semplicemente dire grazie, se non a parole con i fatti. Dimostrare gratitudine alle proprie mamme non ci costringerebbe a girovagare per negozi in cerca di un gioiello o di un mazzo di fiori. Ci darebbe la possibilità di riconoscere a queste grandi donne il valore che hanno avuto nella nostra vita, di mostrare con i fatti che se siamo quello che siamo è solo grazie al loro esempio e ai loro sacrifici.
La gratitudine non si può confezionare, infiocchettare e recapitare a domicilio. Deve venire fuori dal nostro cuore. Anche chi ha la presunzione di essersi fatto da solo, dovrebbe capire che anche ad avere avuto la peggiore delle mamme, quella donna qualcosa glielo ha insegnato, non foss’altro a non cadere nei suoi errori.
Per quest’anno allora, lasciate stare fiori, scatole di cioccolati, macchinette per il caffè e vestaglie in promozione.
Abbracciate le vostre mamme. Fate in modo che sentano forte il vostro amore. Ditele grazie. Fatelo. Fatelo subito. Fatelo con il cuore. Perché un giorno potreste pentirvi di non averlo fatto. Vivreste nel rimpianto. E siate certi che vivere nel rimpianto non fa bene a nessuno.