Conversazione con Giovanni Salvo. Il ritorno delle “pasquinate”, le rime e la lunga tradizione racalmutese.
Se lo chiami poeta mette subito le mani avanti. Ma in fondo un po’ gli piace, perché sa che nel suo paese, a Racalmuto, è uno dei pochi rimasti a scrivere rime. Di quelli irriverenti e pungenti, s’intende, acuminati e ironici, come le pasquinate di una volta, quelle che giravano di casa in casa in forma anonima e spesso per riferire e rivelare al popolo difetti nascosti della politica locale. Giovanni Salvo, Jonny per gli amici, continua nel solco di una lunga tradizione, anche se in tempi di social l’anonimia è scomparsa. Nelle piazze virtuali, paradossalmente, è più difficile nascondersi. Certo, questo un po’ ha cambiato il modo di accogliere queste poesie, non c’è più il mistero, e non c’è più la caccia all’autore come una volta. Giovanni Salvo le sue poesie le firma, eccome, anche quelle un po’ più piccanti.
“Come ricordava Benedetto Croce, e poi anche De Andrè – dice Salvo – fino a diciotto anni tutti scrivono poesie; dopo, possono continuare a farlo solo due categorie di persone, i poeti e i cretini. Comprendi bene dunque i rischi che corro nell’affrontare questo argomento. Detto ciò, non pretendo di chiamare “poesie” i mie componimenti, caso mai quasi delle filastrocche che nascono da un’esigenza, inizialmente solo sarcastica, sulla falsa riga, hai detto bene, di un’antica tradizione racalmutese. Questa mia passione scaturisce dal divertimento che ho provato prima nel leggere le rime degli altri, in particolare quelle di Alfonso Scimè, vero outsider, che poi ho provato a scrivere di mio pugno. Come ben sai, abbiamo in paese una lunga tradizione di eresia e irriverenza rimata alla quale ho cercato “indegnamente” di dare seguito”.
Certo, non è che si diventa poeti da un giorno all’altro…
Fu lo storico locale Calogero Taverna a consegnarmi inconsapevolmente la patente di rimatore, quando con un complimento esagerato e lusinghiero, commentò così una mia poesia: “Siamo nel sublime. L’ironia si addolcisce nel detto veicolare, la memoria si erge ilare nel richiamo delle nostre piccole infantili cose, negli oggetti, nei nomi, nei simboli. Il poeta spazia, il vernacolo si fa lingua; il suono melodia, l’incrocio scroscio di eletta intelligenza. Ecco la vera eredità dello Sciascia in autoctone vesti”.
Un grande, Calogero Taverna…
…già. Avrei dovuto rispondere alla racalmutese maniera con il detto Cala, zi Tà , invece incassai il dilatato apprezzamento e seguitai. Ti confesso che inizialmente ho pensato di essermi collocato perfettamente nell’ambito dell’impostura racalmutese, in considerazione dei veri poeti e scrittori che in paese erano passati. Riflettendo, ho però realizzato di essere stato semplicemente contaminato dal luogo in cui sono nato e cresciuto. Trattandosi di passione, forse un po’ noi tutti qui lo siamo stati. Lo sono stati molti miei amici d’infanzia, oggi affermati giornalisti e scrittori, come tanti altri cittadini letteralmente innamorati del nostro paese. E tutto questo lo trovo molto bello e ti spiego il perché. La trasmissione di questa passione porta delle firme, è fatta di nomi e cognomi, di personaggi più o meno illustri che ci hanno trasmesso il loro sentimento, avendo amato prima di noi questi luoghi. Nomi che abbiamo il dovere di tenere a mente e non far cadere nell’oblio.
L’appuntamento del sabato con i tuoi versi, qui su Malgradotuttoweb, riscuote generosi consensi positivi. E abbiamo notato che hai accostato alle tue rime puramente irriverenti, con le quali abbiamo imparato a conoscerti, anche delle poesie di diverso contenuto, più profonde. Spiegaci come mai?
Potrei aver dato l’impressione di un cambio di rotta, ma non è così. Ho probabilmente affiancato alla passione primaria per le pasquinate anche qualche rima di più profonda fattura, e ciò semplicemente perché ci ho preso gusto. Poiché una cosa non esclude l’altra. Come accade per l’arte astratta, con quei pittori bravi nella raffigurazione di oggetti non reali, i quali sono altrettanto capaci ad impressionare con delle pennellate precise l’azzurro di un mare, il rosso di un tramonto, la lucentezza di un cristallo. Ho voluto dimostrare di possedere anche una certa sensibilità, di non essere solo attratto dal cinismo dei versi, che la mancanza di riguardo della rima irriverente impone.
Parlavamo di nomi che in qualche modo ti hanno influenzato…
Non dimentico la dritta che mi diede il Professor Salvatore Restivo, appassionato come pochi della Storia e delle dinamiche sociali di Racalmuto, quando mi fece conoscere le poesie del notaio Giuseppe Pedalino Di Rosa, che da Milano, città in cui si era trasferito, sconfitto dalla nostalgia, dedicò parecchi versi al paese natio. Apprezzai le poesie di Pedalino quanto quelle irriverenti del professore Scimè. Recentemente ho avuto la bella sorpresa di apprendere, grazie a Piero Carbone, anche lui poeta e scrittore, che Pedalino Di Rosa, come Alfonso Scimè, era stato vicino al socialismo di Nenni. Seppi così che i miei autori graditi, coloro che mi avevano fatto apprezzare la rima racalmutese, erano stati entrambi socialisti, dunque della mia stessa fede politica. Rammentando anche l’avvocato Salvatore Marchese, anche lui socialista, il quale nonostante le sue immense doti oratorie avvertì lo stesso il bisogno di rimare al fine di beffeggiare i suoi avversari politici. Possiamo quindi affermare che la passione per la poesia irriverente ha in paese anche una certa radice riformista. Se poi ti svelo una cosa che pochi sanno, ossia che l’attuale medico Luigi Scimè, nonché tuo zio, anche lui con un passato ultraventennale tra i socialisti del paese, riguardo alla costruzione di rime graffianti non è secondo a nessuno, il cerchio si chiude.
Che ruolo ha avuto, secondo te, la satira nella formazione della coscienza critica del paese? Ci sono stati versi rimasti nella storia…
Non so se la poesia satirica abbia avuto un ruolo, probabilmente ha fatto emergere congiure politiche che senza l’anonimato sarebbero rimaste sconosciute; se un ruolo va cercato lo si può trovare nella fede che la gente di questo paese ha sempre avuto nella scrittura, basta un colpo di penna…La poesia irriverente ha rappresentato dunque una necessità, un mezzo utile rafforzare la comunicazione, una esigenza che sembra essere stata avvertita solo da un pubblico appassionato. Esempio fulgido Eugenio Napoleone Messana, il sindaco-storico che dovendo ricostruire la Storia post fascista nel suo libro Racalmuto nella storia della Sicilia, ha sapientemente incastonato nel suo racconto un delle poesie anonime più belle della storia, un capolavoro: Ngaglià la parrineddra. Il periodo a cui si fa riferimento è quello del braccio di ferro tra i comunisti e democristiani, alle prime amministrative dopo il fascismo, il 24 marzo 1946.
Possiamo dire che l’ironia sciasciana attiene molto allo spirito Racalmutese. Ricordo che al Circolo Unione, dove si conserva una collezione di queste poesie (altri, come noi, hanno studiato e raccolto, penso a Tommaso Rinallo, a Gigi Restivo, a Pippo Di Falco, Angelo Cutaia) molti ricordavano tanti autori, la maggior parte tra i soci stessi del sodalizio. Chi sono stati gli autori più celebri?
In quanto all’ironia, Leonardo Sciascia certamente non ne era esente in quanto Racalmutese. Non so se si interessò mai delle poesie anonime, anche se secondo il mio parere le taglienti rime, quasi sempre rivolte contro il potere, hanno tanto il sapore del suo concetto di tenacia. Il Circolo Unione, frequentato anche dallo scrittore, era a prescindere il covo dell’ironia, e dunque era la centrale di smistamento dove arrivavano le quartine battute a macchina che poi si diffondevano in tutta la piazza, nel paese. Tra i più celebri poeti vi erano sicuramente l’avvocato Totò Garlisi e l’insegnante Alfonso Farrauto; si dice che il più caustico sia stato però un medico, Achille Vinci, corrispondente del Giornale di Sicilia, che animato dalla sua vena poetica, pur di depistare tutti, non risparmiò neppure qualche suo diretto familiare. A testimonianza del rapporto fra la poesia e i racalmutesi, emblematico il ricordo che conserva Federico Martorana di un suo compagno di partito il quale in campagna elettorale era solito comiziare in rima. Di recente, come ebbe a dire Taverna, simpaticamente si sono sommati coloro i quali solo per aver rimato “nenti” con “contenti” si sono auto dichiarati poeti. Il piacere della rima è comunque per Racalmuto un fatto antico se consideriamo che già nella seconda metà dell’800 si stampavano i versi, e persino il luminare Marco Antonio Alaimo, nel suo trattato di medicina, collocò una sestina in vernacolo siciliano. Forse la chiave di tutto si ha nelle Favole della dittatura, il primo libro di Sciascia, in cui lo scrittore in erba dice: “l’asino aveva una sensibilissima anima, trovava persino dei versi. Ma quando il padrone morì, confidava: gli volevo bene, ogni sua bastonata mi creava una rima”.
A parte tutte queste figure, concittadini che hanno lasciato un segno forte a tante generazioni di ragazzi, dovremmo ricordare anche tutti quei Racalmutesi che negli ultimi cinquant’anni hanno davvero fatto tanto per la comunità, per le memorie e tradizioni del nostro paese. Quanti ne ricordo, oltre a quelli citati, per molti di noi veri e propri “maestri della memoria”: Aldo Scimè, Giuseppe Nalbone, Giovanni Di Falco, Nicolò Macaluso, Padre Puma, solo per citarne alcuni…
Per rispondere a questa domanda serve fare ancora riferimento al concetto di contaminazione, alla passione che abbiamo ereditato. Alcuni dei nomi, in larga parte, li abbiamo già fatti qui. Eugenio Messana al quale su mio suggerimento è già stato intestato un parco urbano, l’avvocato Marchese che ha avuto il suo giusto riconoscimento con l’intitolazione dell’aula consiliare, così come per Pedalino Di Rosa ho provveduto, quand’ero assessore, per l’intestazione di una strada a suo nome.
A questo punto, tra coloro che hai citato, mancano all’appello Alfonso Scimè, a cui una ventina di anni fa è stato dedicato il Centro sociale, e Salvatore Restivo, insegnante alle elementari, animatore culturale prima della Pro loco e poi alla Fondazione Sciascia, discreta presenza anche nella redazione di questo giornale, un uomo che ha mantenuto i rapporti con tanti emigrati…
Alla figura del Prof. Restivo, una delle ultime memorie storiche, dobbiamo tanto. In considerazione della sua profonda passione per la storia e le tradizioni del paese, che valorizzò con il suo impegno. Era innamorato della sua Racalmuto. Fu tra quelli che tirarono per la giacca Leonardo Sciascia per “costringerlo” ad interessarsi del proprio paese. Riconoscendo in lui le caratteristiche di uno degli ultimi “contaminatori” di passione, non nego di avere tante volte suggerito la necessità di dedicare qualcosa al Professor Restivo. Indicatissima sarebbe, secondo me, la biblioteca comunale… La toponomastica ha un suo valore quando aiuta a ricostruire la storia di un paese. Ha il compito di imprimere per sempre un luogo dove si svolgevano determinate attività scomparse, la vita di una certa famiglia che ha manifestato amore pubblico per il proprio paese. Deve rimandare informazioni preziose. La toponomastica deve essere considerata una sorta di reperto linguistico che come un reperto archeologico dovrà aiutare i posteri a ricordare e ricostruire anche la microstoria di un determinato luogo. Spero tanto che l’attuale sindaco Vincenzo Maniglia, al quale rinnovo l’invito di dedicare la biblioteca comunale al Prof. Salvatore Restivo, possa finalmente accogliere questo mio suggerimento.
È da una vita che parliamo di rilancio del turismo, di agricoltura non se ne parla proprio. È inutile, i ragazzi se ne vanno. E forse fanno anche bene…
Quella del rilancio turistico è sempre stata una visione ottimista, un tantino gonfiata, forse anche ad arte, che in qualche modo ha finito per distrarci e danneggiarci. Siamo andati verso una sola direzione, abbiamo voluto costruire l’immagine di un luogo ricco di cultura, con mille risorse, stentando però a capitalizzare. In fondo le ragioni dell’esistenza del nostro paese andavano ricercate nelle miniere e nell’agricoltura, che una volta producevano economia, dunque densità di popolazione, e che finivano per reggere un minimo di terziario. Noi siamo stati bravi nella riconversione rimanendo schiacciati tra quello che sembriamo e quello che realmente siamo. Anche se in realtà il danno non è stato poi così tanto, abbiamo solo anticipato di qualche anno gli effetti della crisi che riguarda tutti. È dunque tornato prepotentemente il tema dell’emigrazione, dei giovani che lasciano il paese e partono per lavoro. Qui l’esperienza non ci manca, siamo come dire vaccinati, essendo l’emigrazione uno degli argomenti più pregnanti, con il quale abbiamo convissuto da sempre. A proposito, tornando alle nostre rime, ricordo una bella poesia scritta negli anni Settanta da un nostro concittadino, Luciano Polifemo, poi musicata credo da Francesco Macaluso e Nino Puma, in cui il ritornello recita: “Sicilia terra scurdata, terra lassata e ripudiata; la genti ca ta lassatu ppi lu travagliu avi a turnà… un jornu si Diu voli avi a finiri…”. Quel giorno non è mai arrivato, lo stiamo ancora aspettando.
Le tue rime hanno raccontato anche il paese vuoto, i pochi che passeggiano in piazza, i ragazzi…
…Li picciotti nni lassaru/lu paisi abbannunaru/veni forti anchi a dillu/si leggi sulu Vinni Pinzillu.
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Da Malgrado tutto web, 5 aprile 2020