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Pestilenze ed epidemie nella letteratura siciliana

Per gli scrittori siciliani hanno rappresentato un potente combustibile, una sorta di paradossale polmone d’acciaio dell’immaginario

Salvatore Ferlita,

Anche per la letteratura siciliana pestilenze ed epidemie hanno rappresentato un potente combustibile, una sorta di paradossale polmone d’acciaio dell’immaginario. Tanto da trasformarsi sovente in una metafora di sorprendete vitalità. A fare da apripista è Giovanni Verga: prima con “Storia di una capinera” (1871), romanzo epistolare che ha al centro Maria, una diciannovenne rimasta presto orfana di madre e rinchiusa in un convento di Catania, destinata a diventare monaca di clausura: “Marianna mia. Qui non arrivano che cattive notizie, non si vedono che volti spaventati. Il coléra infierisce a Catania. È un terrore, una desolazione generale” scrive la protagonista all’amica e confidente Mariannina, anche lei educanda del convento. Entrambe ritornano a casa dei genitori a motivo dell’epidemia sempre più allarmante. Ma ritroviamo il colera nei “Malavoglia” (1881): la Longa lo prende e torna a casa “gialla come un voto della Madonna, e colle occhiaie nere; talché la Mena che era sola in casa, si mise a piangere al solo vederla, e la Lia corse a cogliere dell’erba santa, e delle foglie di malva”. Manco a dirlo, la Longa fa una brutta fine: in paese serpeggia la paura, ciascuno pensa alla propria pelle evitando contatti. Solo lo speziale nel romanzo sembra non curarsene: “Lui invece, se gli avessero portato la ricetta del medico per qualche medicina, avrebbe aperto la spezieria anche di notte, che non aveva paura del colèra; e diceva pure che era una minchioneria di credere che il colera lo buttassero per le strade e dietro gli usci. – Segno che è lui che sparge il colèra! – andava soffiando don Giammaria.

Per questo nel paese volevano fargli la festa allo speziale”: vengono alla mente le pagine funeste della “Storia della colonna infame” di Alessandro Manzoni, da Sciascia metabolizzate alla stregua di un’esorcistica giaculatoria. A stretto giro ci imbattiamo in Luigi Pirandello, che proprio a causa dell’epidemia di colera diffusasi a metà del diciannovesimo secolo tra Agrigento e Porto Empedocle nacque nell’isolata tenuta di campagna sita in contrada Caos. Ma a noi interessano le pagine del premio Nobel nelle quali il contagio assurge a motivo simbolico: basti pensare alla novella “Soffio” (1931, tra le più visionarie e surreali) in cui il protagonista un giorno si accorge di potere di uccidere chi ha di fronte soltanto facendo il gesto di soffiare fra il pollice e l’indice, “come a far volare una piuma che tenessi tra quelle due dita”. Presto tutti i giornali ne parlano e di conseguenza la città si sveglia “sotto l’incubo tremendo d’una epidemia senza scampo scoppiata fulmineamente. Novecento sedici morti in una sola notte. Nel cimitero non si sapeva come riparare a seppellirli; non si sapeva come riparare a portarli via tutti dalle case”.

Con Luigi Natoli il colera ricompare con forza: stiamo parlando de “I morti tornano” (1950), romanzo ambientato nel Milleottocento, proprio durante l’epidemia che flagella Palermo. Per sfuggire al contagio due famiglie, quella di Giovanni e Rosalia e quella di Andrea e Carlotta, apparentemente dai solidi principi religiosi e morali, si rifugiano a Mezzomonreale trovandosi così a convivere nella stessa casa: ne viene fuori una sorta di “Decameron” in sedicesimi, cucinato in salsa palerminata.

Dal colera alla tubercolosi il passo può essere breve a Palermo: “Diceria dell’untore” (1981, titolo in qualche modo manzoniano) di Gesualdo Bufalino, basato su un’esperienza autobiografica dello scrittore, è ambientato nel sanatorio della Rocca sulle alture del capoluogo isolano. La morte regna ovunque sovrana. Nei fazzoletti sudici di sangue, nei colpi di tosse che agitano i corpi smilzi e senza forza, ma soprattutto nelle parole che si fanno al tempo stesso ricettacolo e vettore del contagio.

Ma ad avere la meglio, nelle carte degli scrittori siciliani, è quasi sempre la forza allegorica del morbo che si diffonde, del flagello che serpeggia, della paura del contagio: come confermano ad esempio le pagine del “Giudizio della sera” (1974) di Sebastiano Addamo, una sorta di mappatura della pestilenza che affligge Catania come una novella Orano (la città della “peste” di Camus). Un morbo funesto quale correlativo oggettivo della guerra, che si avverte in quanto immondo effluvio: “Sopravvenne l’odore di piscio. Inopinatamente, senza alcun preavviso, dilagò, s’impose, si impossessò della città.

Non ci fu difesa, né riparo, né volontà e possibilità…”. Ne “Lo Spasimo di Palermo” (1998) invece la peste evocata da Vincenzo Consolo allude all’asfissiante pervasività della prepotenza mafiosa, giunta quasi al punto di non ritorno con l’attentato al magistrato Paolo Borsellino: “Congiura, contagio e peste in ogni tempo” intercala Consolo con ritmo anapestico (da tragedia greca).

Potrebbe essere Palermo (anche se camuffata, a tratti fuorviante) il teatro della contaminazione evocato nelle pagine di “Domanda di prestito” (1976) da Angelo Fiore: una città che va in pezzi, che inevitabilmente si sbriciola anche per via di un’epidemia preannunciata da odori guasti di decomposizione che investono le strade, emergendo da un sottosuolo marcescente: “Forse in ogni via c’era un cadavere imputridito”.

E a Palermo assomiglia troppo la città quasi disegnata a matita da Fulvio Abbate nel suo “La peste bis” (1997), che lentamente svanisce, soffocata dal morbo, tallonata dal contagio. Nei giorni della peste, che Abbate racconta tra Boccaccio (non a caso il protagonista, Marcello Aragona, è un inventore di barzellette, incaricato da due belle fanciulle misteriose di scrivere una storiella arguta che salvi la città dallo smarrimento della memoria collettiva provocato dall’epidemia) e Camus (quel Camus che nel suo romanzo fa riferimento a una “città felice”. “Dice proprio così – scrive Abbate – città felice, Camus. Come se l’avesse fatto apposta. Chissà che pensieri doveva suggerire Palermo a Camus”). Insomma, Palermo in questo romanzo tragico e picaresco insieme diventa “un luogo tracciato appena, soltanto una stenografia di città”; “una città bigia”, che dalla luminosa primavera di “Zero maggio a Palermo” piomba in un crepuscolo autunnale. Per poi trasformarsi, nel 2015, in una città di macerie e rottami in “Anna” di Nicolò Ammanniti (che però siciliano non è), un vero e proprio spazio post-apocalittico attraversato da un virus sconosciuto e letale che ha già fatto fuori gli adulti e continua a uccidere gli esseri umani ai primi inequivocabili segni di pubertà. Ovunque cartelli crivellati di colpi, alcuni quartieri sembrano addirittura bombardati: “Nessuno sembrava essersi salvato”. Il lungomare assomiglia a una tendopoli, il porto è stato consumato da un incendio “così vorace che aveva deformato pure il ferro delle cancellate”.

Da la Repubblica Palermo, 3 marzo 2020

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