Intervista al grande fotografo “Sono andato via giovanissimo ed è sempre un andare e tornare. L’amore rimane e rimangono tutti i rancori”. A Catania inaugurata la mostra dedicata alla Sicilia con un omaggio significativo al suo amico Leonardo Sciascia
Ripercorre la Sicilia attraverso un condensato di ricordi, pronto per festeggiare ottant’anni. Un compleanno speciale per Ferdinando Scianna che la sua isola celebra con una mostra a Catania – “Ti ricordo, Sicilia” dal 23 giugno al 20 ottobre al museo civico di Castello Ursino – e con una festa e un libro – “Caro Fernando” a cura di Maurizio Padovano – il 28 giugno, a Bagheria, dove Scianna è nato il 4 luglio del ‘43, sei giorni prima dello sbarco degli alleati sulle coste siciliane.
«Siamo quel che siamo in relazione alla Sicilia», dice il grande fotografo che pensa alla coincidenza e all’incidenza di quella sua prima mostra, giusto sessant’anni fa, dedicata alle feste di Sicilia. Tutto parte e tutto torna sempre in quest’isola di luce e di ombre, di vigorosi silenzi e di esplosioni collettive. Un rapporto forte «rimasto costante con questa terra ricordata e declinata fin da subito all’imperfetto dell’obiettivo».
Un ritorno amalgamato di ricordi, dunque, per lei che ha sempre considerato la fotografia racconto e memoria.
«Sono andato via dalla Sicilia a ventitre anni. E ora che ne sto per fare ottanta mi rendo conto che l’individuo a questa età passa più tempo a ricordare. Praticamente sì, se non succederanno catastrofi, con mio grande stupore, fra qualche giorno avrò ottant’anni. Cosa significa questo ancora me lo continuo a chiedere. Ma so, sostanzialmente, che moltissimi amici non ci sono più perché il tempo è un assassino».
Gesualdo Bufalino sosteneva che i ricordi lo ammalavano e lo curavano allo stesso tempo…
«Per uno scrittore e anche per un fotografo è così. La fotografia ha creato una illusione tecnologica col tempo che si ferma, si cristallizza, fosse pure per un istante. Tutti possiamo vedere la foto della nostra mamma da bambina, cioè prima che diventasse mamma, come nella ricerca di Roland Barthes. Ci si rivede, insomma. Ed è un passato che si ridentifica. Che poi è il meccanismo della memoria: noi siamo fatti di passato, ma questo passato è il nostro presente, in un certo senso».
Le sue prime mostre risalgono a sessant’anni fa. Una vita intera con la macchina fotografica a tracolla…
«A diciassette anni ho cominciato a fotografare, con una certa metodicità, feste, volti, i momenti della vita contadina. E il mio primo libro sulle feste religiose, grazie a quell’incontro fondamentale per la mia vita con Leonardo Sciascia, uscì che io avevo ventun anni, che è una cosa molto bizzarra. Ero troppo giovane, avevo vita dentro di me, passioni, impulso. E tuttavia a volte penso che non sono io l’autore di quelle foto, ma un ragazzo che sapeva istintivamente che il mondo che lo circondava stava scomparendo. Svaniva il mondo intorno a me e mi interrogavo su questo e su me stesso, in definitiva. A quel mondo ho sempre fatto riferimento. Non si smette mai di essere quel che si è stati nell’infanzia e nella giovinezza. Sono andato via giovanissimo dalla Sicilia ed è sempre stato un’andata e ritorno. L’amore rimane e rimangono anche tutti i rancori che ci hanno spinto a me e alle tante centinaia di migliaia di persone a lasciare questa terra».
Tante fotografie, ma di quel giorno così importante che le ha cambiato la vita non esiste un solo scatto. Era il 16 agosto del ‘63 quando andò a cercare Sciascia a Racalmuto
«Questa è una cosa sulla quale io continuo a pormi delle domande. In realtà ero rimasto così folgorato dall’incontro con quest’uomo in quella casa di gesso della campagna della Noce dove lui andava tutte le estati e dove ha scritto i suoi libri. Era un posto pazzesco, monacale, senza acqua né luce, senza alberi di belluvidiri, un luogo spartano, insomma. Ero talmente emozionato che non feci nessuna foto. Gli incontri sono fondamentali nella vita di tutti. Le persone sono le barche che ti fanno attraversare il mare della vita. Senza Sciascia non sarei stato l’uomo e il fotografo che sono oggi. Sono poi tornato alla Noce, per ventisei anni. Tutte le estati organizzavo il mio viaggetto in quel luogo dove si celebrava il rito dell’amicizia con i suoi vicini. Ricordo Nicuzzu Patito, un contadino molto saggio».
Uno che finì anche in diverse pagine dello scrittore
«Non poteva non finirci. Nell’estate del ‘78, quando stava scrivendo L’affaire Moro, Leonardo aveva nel volto le cose che stava scrivendo. Nico Patito l’aveva visto particolarmente cupo e gli chiese cosa stesse facendo. Rispose che stava scrivendo una specie di tragedia. Il contadino gli disse che in una tragedia ci vuole un re che poi deve essere ammazzato. Leonardo ne rimase impressionato perché era proprio la storia che stava raccontando. L’antico retaggio della tragedia greca arrivava al grande scrittore dalle parole di un contadino».
Insomma, la Sicilia è stato tutto: riti, paesaggi, personaggi…
«Ho cominciato a fotografare perché la Sicilia era là, era lei che mi diceva di fare qualcosa, di metter via pezzi di memoria. Nell’isola ho scoperto la luce: il sole che ti costringe a cercare l’ombra perché il bagliore è fortissimo. Facevo fotografie partendo dall’ombra. E sempre qui ho imparato la violenza, cos’è il lutto, cos’è il senso dell’amicizia, questa relazione tra persone che può arrivare persino a diventare mafia. E io sono tutto questo, con le mie nostalgie e i miei rancori diventati nel tempo quasi un’altra fuga dalla Sicilia, utile per ritornare ancora e ripercorrerla».