I due pini di Castelvetrano tagliati, per vendetta, dalla mafia. Da qualche anno uno dei tronchi recisi da Cosa Nostra è una scultura di Umberto Leone e Ute Pyka, nello spazio davanti all’ingresso del parco archeologico.
Il racconto di Savatteri
La cosa che fa più male? Il rumore. Proprio così: il rumore. Perché non riesci a dimenticarlo. Certe notti mi sembra di risentire lo stridore del ferro, il crepitio del legno, lo squarcio delle vene, lo strappo delle fibre. Sempre succede nelle notti di vento, quando il cielo si chiude a pugno nelle trombe d’aria che scendono a picco sul mare. Allora, nel fragore della tempesta – quando il buio è segnato da clangori, boati, fremiti, percosse – torna prepotente il rumore. So bene che non è un caso: quella notte c’era vento. Fino ad allora mai ne avevo avuto timore. Mai. E in questa parola – mai – in questo assoluto, in questo eterno presente risiede forse il peccato più grave: la superbia. Non potevo certo immaginare che ad ogni peccato corrisponde adeguata punizione. Da noi si cresce così: senza alcuna premonizione del futuro, senza alcuna paura del peccato o dell’errore, né preveggenza di caduta. Facciamo in fretta a prendere l’alto, a sfidare il cielo. E forse per questo veniamo spesso considerati presuntuosi. Ma così non è: lo sa bene chi impara a conoscerci. Chi decise per noi due, per me e per mia sorella, ci volle mettere l’uno a fianco dell’altra. E appaiò le nostre vite a quelle di altre due creature, che portavano gli stessi nostri nomi o viceversa. Non sono molti i ricordi, perché i cerchi delle nostre vite sono segnati da giorni apparentemente uguali, uniformi e dilatati, in un lento divenire di stagioni, di inverni ed estati, di periodi caldi e di periodi freddi, di piogge e di solleoni. Non sono molti i ricordi, ma non dimentico la campagna bassa e piatta che si allunga giù verso il mare di Selinunte, offrendosi al nostro sguardo alto perfino oltre le antiche pietre di morte civiltà sepolte. Né posso dimenticare il giorno d’estate in cui i due bambini che portavano gli stessi nostri nomi – o noi portavamo i loro? Spesso me lo chiedo – non riuscirono più a contenerci nel diametro delle loro braccia Eravamo già molto più alti di loro. Anzi, per la precisione eravamo più alti di tutti. Svettavamo sulla polvere dei mandorli, sulle contorsioni degli olivi, sulla cupezza degli aranci, sulla fatica delle vigne. Forse proprio per questo guadagnammo superbia. Troppo alti, troppo forti, troppo distanti per capire le piccole cose che agitavano gli uomini ai nostri piedi. Ci sentimmo invincibili, sfiorammo l’eresia di pensarci eterni. Avremmo dovuto avere più umiltà, almeno piegarci per capire cosa muoveva le figure che si dibattevano laggiù, molto al di sotto dei nostri pensieri sempre portati dal vento. Avremmo dovuto avere maggiore esperienza, per intuire cosa spingeva le ombre scure che a volte scivolano veloci in certe notti senza luna. Quando ci risvegliavamo alle prime luci dell’alba, ai nostri piedi trovavamo aranci sgarrettati, olivi ghigliottinati, vigne dagli ormeggi recisi. Ma tutto questo – ingenua illusione, dico adesso – sembrava non ci riguardasse. Erano storie di piccoli uomini carichi di risentimenti e di piccoli alberi carichi di frutti. Ben conoscevamo la scarsa considerazione che avevano per noi i contadini: ci guardavano con sufficienza, lo sguardo verso l’alto, la smorfia sulla bocca. “Animali inutili, di bellu vidìri”, sentenziavano sputando tra gli aghi che desertificavano la nostra ombra. Questa inutilità ci sottraeva alla logica del profitto e dell’interesse, ci risparmiava dalla lenta consunzione del ramo che soffre, gemma, fiorisce, e fruttifica per beneficio altrui. Nobile blasone: vivere solo per dare ombra e piacere e bellezza, a se stessi e agli altri.
Avremmo dovuto capire meglio gli uomini, quelli che avevano sgarrettato aranci, reciso vigne, decapitato olivi. Avremmo dovuto preoccuparci maggiormente quando le fiamme si mangiarono la casa lasciando carboni fumanti. Quella volta sentimmo l’arsura, la minaccia del fuoco, il pericolo e la paura. Ma al risveglio, ci ritrovammo illesi, ancora alti nel cielo terso, con il mare laggiù bianco e abbagliante e fu breve sforzo convincersi di essere immortali.
La cosa che fa più male? Il rumore. Attaccarono prima mia sorella: la sentivo gemere sotto i denti della sega, nello strazio che mordeva corteccia, tronco, polpa. La vidi atterrare giù, nello schianto che ancora risento, e quando fu al suolo mi sembrò inutilmente grande e inutilmente morta. Poi toccò a me. E sembrò non finire mai, perché a quel punto avevo solo fretta che smettesse il rumore per risentire il silenzio della notte.
Avrei dovuto capire meglio gli uomini, le loro avversità, i loro pensieri cattivi, i loro umori neri, i loro stessi sentimenti, per comprendere che solo abbattendo me e mia sorella avrebbero provocato una ferita insanabile. Peccai di superbia, pensai che non avrebbero avuto la sottigliezza di conoscere il segreto della nostra esistenza. Ma invece colpendo noi, colpirono qualcosa di più grande e vasto e profondo del raccolto dell’anno, della buona vendemmia, dell’olio nuovo che possono stare nel bilancio delle entrate e delle uscite, dei ricavi e delle perdite. Colpirono noi perché non avevamo alcun valore – inutili, di bellu vidìri – ma proprio per questo eravamo inestimabili.
Certe notti, mi sembra di risentire il vento e il muggito del mare gonfio di Selinunte. Credo siano solo sogni di legni secchi, suggestioni di linfe asciutte. Ma in questo vento, in questo mare, in questo antico suono della vita, mi sembra che si anneghi il cuore mio.