Fondato a Racalmuto nel 1980

Il barbiere di Sciascia si racconta: “I miei clienti? Scrittori e poeti”

A Caltanissetta Salvatore “Totò” Diminuco ha aperto bottega nel 1963. A Salvatore Picone ha raccontato gli anni in cui anche lo scrittore di Racalmuto frequentava la sua sala da barba di via Redentore: “Il professore non era un cliente come gli altri, parlava poco e ascoltava molto

Salvatore Diminuco nella sua sala da barba

Lo chiamano “le forbici di Santa Lucia”. È il Figaro del Redentore, barbiere di Sicilia, della centralissima via nel cuore del centro storico di Caltanissetta, a due passi dalla chiesa dedicata alla santa della luce. Nella sua sala da barba ci si sente in una pellicola degli anni Sessanta, in certi film di Damiani e Petri. Qui, al numero civico 4 di via Redentore, tutto è rimasto fermo a mezzo secolo fa. E persino lui, Salvatore Diminuco detto Totò ha lo stesso spirito di quando, nel marzo del 1963, arrivando da Marianopoli, aprì bottega con l’amico Filippo Giarratana. Per oltre cinquant’anni ha fatto barba e capelli a mezza Caltanissetta. Le sue mani hanno sfiorato facce di zolfatari e contadini, professionisti e galantuomini.

Di fronte la sala da barba con le pareti azzurre ci abitava Leonardo Sciascia che da Racalmuto, nell’inverno del 1958, si è trasferito con moglie, zia e figlie al numero 1 di via Redentore. In questa casa con i balconi che si affacciano sulla via alberata, lo scrittore racalmutese, già consacrato alla letteratura, ha vissuto fino agli ultimi mesi del 1960. “Quando ho aperto il mio salone – racconta Salvatore Diminuco – abitava già più avanti, sempre in questa strada. E in quella casa è rimasto fino a quando non si è trasferito a Palermo”. “Passava da qui quasi tutti i giorni, nel pomeriggio intorno alle quattro. Quando non faceva la barba chiacchierava, leggeva il giornale, si parlava del più e del meno. Si era ricreato una specie di circolo di paese. Per noi era il professore Sciascia, un gran signore. In un primo momento suscitava soggezione forse perché parlava poco. Ma c’erano altri che erano più loquaci. Ricordate Alfonso Campanile, il poeta? Proprio lui, sì. Era amico di Sciascia”.

Campanile, il poeta di Amore contro amore, uno dei libri che lo scrittore di Racalmuto pubblicò, nel 1961, nei “Quaderni di Galleria” per le edizioni, piccole raffinate e ormai introvabili, di Salvatore Sciascia. Fu anche consigliere comunale del Pci a Caltanissetta, accompagnava spesso Sciascia in macchina. Tutti e due frequentavano il salone di Totò Diminuco. Da lì si muovevano con tanti altri, da Stefano Vilardo a Lilly Bennardo, giù fino al Caffè Romano e alla vicina libreria Sciascia, luogo mitico e oggi quasi leggendario, cenacolo letterario di una generazione che ha lasciato il segno in questa città che oggi dovrebbe ricordare, anche con una targa, questo luogo della memoria persa e dell’identità da ritrovare.

Diminuco non sta fermo un attimo. Passa un cliente per salutarlo. L’altro, dal marciapiede, lo chiama per offrigli un caffè. Fuma. Guai a chiamarlo parrucchiere. In questo quartiere è un punto di riferimento, anche per essere stato presidente della storica Real Maestranza e dei barbieri della città. E racconta: “Due, tre volte a settimana Leonardo Sciascia veniva a fare la barba. Una volta gli dissi che mia mamma era cugina dello scrittore Piero Chiara. Forse questa parentela lo sciolse nei miei confronti. Sciascia lo stimava, mi diceva che era uno scrittore serio. In quegli anni, ricordo, parlavamo spesso di un libro che aveva scritto Chiara, Con la faccia per terra”. Veniva anche il poeta Attilio Colombo di Sommatino che con i versi “denunciava le ingiustizie sociali”, ricorda Diminuco lui stesso poeta, autore di Parole e rime.

Nella sua barbieria, ancora attiva ma ormai quasi un museo di ricordi, accanto a forbici, pettini, pennelli e rasoi, tra i due grandi specchi, alcune macchine da scrivere. Libri e riviste di ogni tipo. E tante fotografie in bianco e nero alle pareti, come quelle di Giuseppe Alessi, primo presidente della Regione Siciliana, partito proprio da qui, dove fondò nel 1943 la Democrazia Cristiana. Tante foto di professori, notabili e uomini di Chiesa che pare diano volto ai personaggi di A ciascuno il suo ambientato, scrivono i critici, proprio a Caltanissetta.

“Sciascia non era un cliente come tutti gli altri – ricorda Diminuco – parlava poco, ma ascoltava. Ed era affettuoso, mi chiamava Totuccio. Una volta gli dissi che avevo un amico al suo paese, un orologiaio. Andammo insieme a Racalmuto, volle farmi vedere la sua casa di gesso in campagna, alla Noce, circondata da vigneti e pistacchi. E poi siamo andati a prendere un caffè in paese. Era un galantuomo. Ero ancora giovane e mi diceva che il mio era un mestiere artigianale, sì, ma molto particolare perché lavoravamo a contatto fisico con le persone. Prendi il meglio delle cose che ascolti, mi disse il professore tra una pennellata e un’affilatura di rasoio”.

Così come lo ha fatto Salvatore Diminuco, il barbiere non lo fa più nessuno. Non esistono più i saloni di una volta, veri e propri circoli, luoghi di mandolini e chitarre. Luoghi dove si vagheggiavano nell’aria corpi di donne. Come quelle che si vedevano nei calendarietti profumati che i barbieri davano ai propri clienti. “A Sciascia, a Campanile, agli amici poeti, ai professori davo quelli più seri, quelli dedicati alle operette o alla lirica”, dice mostrandoli come sacre reliquie di un mondo felice, come è rimasto nei ricordi del ragazzo di bottega cresciuto qui, Salvatore Valetra, da anni ormai lontano dalla Sicilia, da Caltanissetta, da via Redentore e dal suo barbiere degli scrittori.

da “Repubblica Palermo” del 21 gennaio 2020

Condividi articolo:

spot_img

Block title

Medicina Estetica, quali sono i trattamenti maggiormente eseguiti e perché

Se ne parla nello Speciale Medina di Simona Carisi in onda su Teleacras

“Il valore sociale e culturale dello sport”

Sciacca, presentata l'edizione 2024 del "Natale dello Sportivo"

Caltabellotta Città Presepe

Dal 26 dicembre la tredicesima edizione. Le iniziative in programma

“Gli sbirri di Sciascia”

La recensione di Teresa Triscari al libro di Giuseppe Governale