A Porto Empedocle la presentazione del libro di Tano Siracusa “Sconfinamenti”, edito da Antipodes. La prefazione di Alfonso Maurizio Iacono
Vi sono libri dove le immagini fanno da illustrazione a ciò che è scritto e vi sono libri dove, al contrario, ciò che è scritto serve a commentare le immagini. Questo di Gaetano Siracusa non è né l’uno né l’altro. E’ uno straordinario libro di fotografie ma è anche un libro sulla fotografia e sul fotografare, è un libro dove le foto vengono meravigliosamente narrate in un delicato e sorprendente gioco tra scrittura e immagine.
Scrive Paul Valéry: “L’impero delle lettere non si limita affatto alle province della poesia e del romanzo. Si estende agli immensi domini della storia e della filosofia, le cui frontiere indecise si disperdono talvolta dal versante dei territori organizzati della scienza e delle foreste della leggenda. E’ qui, in queste regioni incerte della conoscenza, che l’intervento della fotografia – e persino, la sola nozione di fotografia -, assume un’importanza precisa e notevole, poiché introduce in queste venerabili discipline una nuova condizione, forse una nuova inquietudine, una sorta di reattivo nuovo di cui non si sono senza dubbio ancora considerati abbastanza gli effetti”[1].
Seguendo la riflessione di Valéry, se dovessi andare un po’ più in là, direi che questo è un libro fatto, attraverso la fotografia, dello stupore che caratterizza la filosofia e del realismo così come si è configurato in letteratura e in pittura. Sconfinamenti è un libro di fotografie scattate in molte parti del mondo, di mondi altri (del mondo siciliano, africano, sudamericano, indiano, spesso degli anfratti dei luoghi di questi mondi), di popoli messi da parte, composti da bambine e bambini, da donne e uomini diseredati o dimenticati, a cui il fotografo restituisce la dignità che essi hanno già dentro sé stessi. In tal senso si collega al realismo, non perché si avvicini di più alla realtà o la descriva con maggiore precisione, ma in quanto ritaglia momenti della quotidianità, di una quotidianità i cui eroi sono i non eroi in bianco e nero delle strade, dei vicoli, dei bar, dei muri di Essaouira, di Agrigento, di Dehli, di Lima, di Buenos Aires. Come scrisse nel XIX secolo Champfleury, “la riproduzione della natura da parte dell’uomo non sarà mai una riproduzione né una imitazione, sarà sempre una interpretazione”[2]. Nel dire questo, l’autore contrappone la pittura al dagherrotipo, l’antenato della fotografia, affermando che la riproduzione fotografica ha quel potere di riprodurre e di imitare che non appartiene alla pittura. Aveva ragione sul realismo in pittura, ma aveva torto sulla fotografia. Anche le fotografie sono interpretazioni della realtà e il realismo ha a che fare con ciò che interpreta e ciò che interpreta ha a che fare con i non eroi della quotidianità, ma anche della marginalità e della povertà. La stessa cosa si deve dire per il cinema neorealista di Vittorio De Sica, Cesare Zavattini, Roberto Rossellini.
Gaetano Siracusa assegna alla fotografia e al fotografare la possibilità di guardare con altri occhi e di stupire. Ma con la fotografia questo accade anche per l’imprevisto che emerge quando essa vede ciò che l’occhio non ha visto. “In camera oscura, egli scrive, avrei constatato con soddisfazione che un errore e il caso avevano creato la fotografia che non ero riuscito a vedere”. Ma anche il rapporto tra originale e copia si rovescia:
“Il punto di intersezione fra una fotografia e ciò che viene fotografato, fra una copia e l’originale, è l’attimo dello scatto, l’occhio cieco del diaframma che si apre per una frazione di secondo sul mondo. Appare evidente che l’originale precede la copia, ne costituisce il presupposto. A volte tuttavia l’ordine generativo e gerarchico della loro relazione può invertirsi. Accade infatti che una fotografia possa produrre una serie di eventi reali, dei ‘nuovi originali’ nel mondo fotografato”.
Eppure Sconfinamenti non è soltanto un libro di fotografie. I commenti di Gaetano Siracusa fanno a gara con le foto e si distendono in un gioco dove emerge l’ambiguo e affascinante legame tra realtà, interpretata con gli scatti, e la finzione. Talvolta la realtà somiglia alla finzione e si mostra attraverso una scena teatrale. E quest’ultima dice il vero o dice il falso? Grande tema della rappresentazione che risale a Platone e a Aristotele e che non cessa di metterci in difficoltà. E così a Safi, in Marocco tutto sembra sospeso e magico, illusorio e teatrale. Ma, osserva Gaetano, “Gli unici a sottrarsi in Marocco a questi scambi illusionistici erano proprio i bambini, sia che giocassero, che elemosinassero un dirham (che era poi un altro gioco) o che il dirham se lo facessero togliere di mano dal tipo che li irretiva con le sue chiacchiere”. In fondo è così. I bambini sanno meglio degli adulti cos’è un gioco e cosa non lo è e sanno perfettamente che la teatralità è un gioco. Entrambi fanno parte della finzione, che proviene da fingo che significa immagino, formo, creo.
Infine vi è un tema che ritorna di continuo nelle foto e nei commenti: la finestra. In fondo la foto stessa è una finestra. Essa ha la capacità di unire gli opposti. Allontana creando distacco e avvicina formando una scena; separa il mondo dell’osservatore dal mondo dell’osservato, e tuttavia lo unisce; ci informa che esiste un universo di senso dentro la cornice che la delimita, ma ci comunica anche che esistono molti mondi fuori dalla cornice; rende teatrale la vista panoramica da un albergo, che è anche, nello stesso tempo, familiare e sicura; mette l’osservatore al riparo da ciò che osserva, eppure lo coinvolge in ciò che avviene al di là di essa.
La visione di Gaetano Siracusa si può forse riassumere nella sua idea che le fotografie sono espressione di una “irrealtà di spazio senza tempo.
Sapendo bene tuttavia che è proprio in quel loro perfetto e stravolto rispecchiamento, nella loro inquietante e ostinata fissità, che le fotografie basteranno sempre a sé stesse, estranee e indifferenti a ogni tentativo di oltrepassamento”.
Sconfinamenti, sì! Tra fotografia e scrittura, tra realtà e finzione, tra distanza e vicinanza, tra osservatore e osservato, tra quello spazio e quel tempo dove l’occhio del fotografo e la mano dello scrittore cercano di fissare con le immagini e le parole la vita, ben sapendo che ciò non è possibile se non per surrogati. E’ forse proprio questo che il libro di Gaetano Siracusa suscita in chi lo legge: un senso di pietas, cioè di comprensione partecipe verso l’altro, gli altri, nella dignità della loro esistenza che non sappiamo se c’è ancora o ci sarà. Sappiano soltanto che c’è stata.
* Un grazie a Pepi Burgio e a Luca Mori
[1] P. Valéry, Discorso sulla fotografia (tenuto alla Sorbona il 7 gennaio 1939 per il centenario della nascita della fotografia), Filema, Napoli 2005, p. 31-32.
[2] Champfleury, Le réalisme, Michel Lévy, Paris 1857, p. 92.
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Prof. Alfonso Maurizio Iacono
Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere
Università di Pisa