“Si, una persona normale che ha dato la vita per le istituzioni”. Il ricordo a 20 anni dalla prematura scomparsa.
L’aggettivo che ricorre più spesso, in questa storia, è “normale”. La storia “normale” di un uomo diventato magistrato e poi marito e poi padre. Un uomo che ha avuto poco tempo, troppo poco, per coccolare i suoi affetti, i suoi sogni, le sue ambizioni, le sue idee, la sua professione. Il destino ha interrotto la sua corsa il 26 agosto del 2003.
Luca crescente aveva trentanove anni quando se ne è andato. Era un sostituto procuratore della direzione Direzione Distrettuale Antimafia. E la morte lo ha colto, crudelmente, mentre si trovava in vacanza in Trentino con moglie e figli, piccolissimi.
Roberto Alajmo sulla “breve vita felice di Luca Crescente” ci ha scritto un libro (Tempo niente, Laterza). E se quelle pagine sono venute via una dopo l’altra, parola dopo parola, pezzo dopo pezzo, frammento dopo frammento, si deve alla determinazione della moglie di Crescente, Milena Marino. Tecnicamente sarebbe una vedova, ma come si fa a chiamare così una donna che al telefono ci dice, “io, si capisce, sono molto innamorata di mio marito”. E con una voce che si colora di felicità quando parla del suo uomo che ha conosciuto all’università.
Una donna che ora ha come una missione: tramandare la memoria del marito, lottare contro l’oblio, diffondere la sua storia “breve e felice”. Lei, alla fine di una tenace trattativa, strappò ad Alajmo l’impegno di scrivere un libro su Crescente. Ed ecco la sua motivazione sul perché ci tenesse tanto a un libro: “Perché un libro resta. Perché deve servire a mantenere la memoria di Luca. Io no, io mai, ma mi accorgo che il mondo è andato avanti senza di lui, e presto se lo sarà dimenticato. E questo non lo posso accettare”.
Crescente, trapanese, classe 1964, si occupò soprattutto di mafia agrigentina. Conosceva tutto delle cosche che prosperavano all’ombra dei templi. Faceva la spola fra Palermo e Agrigento quasi ogni giorno. Una faticaccia, un massacro, che lui però affrontava serenamente. La soddisfazione era poi tornare a casa, la sera, e ritrovare la sua famiglia e i suoi adorati figli.
Nel giudizio di amici e colleghi, “Luca” era un personaggio gioviale, cordiale, allegro, disponibile, affettuoso. Sul lavoro era attento, rigoroso, inflessibile. “Una persona straordinariamente normale, come si dice dei santi”, ricorda Leoluca Orlando di cui fu amico. “Si, una persona normale che ha dato la vita per le istituzioni. Perché mio marito si sentiva parte di esse”. Una “morte bianca” quella di Luca Crescente, una di quelle che non finisce nelle pagine di cronaca nera dei giornali. Ma assimilabile in tutto e per tutto al sacrificio di molti altri servitori dello Stato e al prezioso lavoro che svolgono.
Il Giudice Crescente apparteneva a quella razza di uomini (uomini, prima che magistrati) che non si piegava con facilità, piuttosto dirompeva. La sua idea di stare in questo mondo era antitetica all’ “essere” di certi magistrati così descritti dal filosofo Emmanuel Mounier: “Questi esseri curvi che si avvicinano alla vita di sbieco e con gli occhi bassi, queste anime sgangherate, questi calcolatori di virtù, queste vittime domenicali, questi devoti codardi, questi vasi di noia, questi sacchi di sillogismi, queste ombre di ombre”.
Cosa resta, alla fine di un uomo? Che cosa lascia di sè di più prezioso? Non i soldi, non le case, non le ricchezze sonanti. Ma le parole. Provate a farci caso, ma quando se ne va una persona cara abbiamo bisogno di immaginarci l’intonazione della voce o certe frasi consuete sulle labbra per raffigurarcelo.
Senza le parole il ricordo è nulla. Per questo Milena Marino non perde occasione di rinverdire il ricordo del marito. Perché anche lei ha una grande fede nelle parole e sa che possono muovere il mondo e riportare in vita le persone, come per magia.