La singolare storia di Antonino Sciascia, medico e studioso di Canicattì, creatore della Fototerapia. A lui è intitolato il Liceo Scientifico della città.
La prima disgrazia dell’uomo è nascere in un paese. L’affermazione veniva ripetuta spesso da un tizio, nato e cresciuto in un paese, che faceva discendere da questa molte altre disgrazie: la marginalità, il provincialismo, l’emigrazione, la nostalgia, il ritorno, la delusione. Disgrazie di gente di paese, quando questi paesi sono al sud e questo sud è estremo, i suoi confini stretti nello spazio di un’isola. Ora, è pur vero che nessuno è costretto a passare la propria vita là dove è nato. Così come è vero che c’è sempre la possibilità di partire, scoprire, viaggiare e diventare cittadini del mondo. La disgrazia, pertanto, si attenua e nel tempo d’oggi può definirsi una sfavorevole condizione, facilmente superabile.
Ma nel 1839 la disgrazia di nascere in un paese era veramente tale. Ad Antonino Sciascia questa sventura capitò, non avendone alcuna colpa, il 19 novembre di quell’anno: nella sfortuna, ebbe la ventura di venire alla luce in una grande casa ben illuminata dal sole nel quartiere Baida di Canicattì, in una famiglia abbastanza agiata, figlio di Angelo Sciascia e di Epifania Sfalanga. Tutto sommato, Canicattì non era nemmeno il peggio, in Sicilia e in particolare nell’interno della provincia di Agrigento: a metà dell’Ottocento poteva vantare oltre diciottomila abitanti, una certa vivacità politica, campagne feconde, una popolazione laboriosa, oltre trecento famiglie di piccoli proprietari terrieri, una sessantina di grossi possidenti, una cinquantina di pastori, mille braccianti, quattro notai, sei agronomi, tre agrimensori, una decina di avvocati, quaranta sacerdoti, una cinquantina tra suore e monaci, settanta falegnami, duecento calzolai, tredici farmacisti, trenta negozianti, un’ottantina di muratori, trenta pastai, tre fornai, cinque caffettieri, venti barbieri, venti macellai, venti carrettieri, una quarantina di sensali e trafficanti, un centinaio di civili (cioè coloro che campavano di rendita) e poi coltellai, cretai, viaggianti, venditori ambulanti, sellai, saponari, intagliatori, chiavitteri, calderai.
Insomma – se già non è venuta a noia questa elencazione – una realtà in movimento, formicolante di attività, densa di interessi. Una realtà che, subito dopo l’Unità d’Italia, esplose economicamente, anche grazie a sistemi di coltivazione moderni, determinando l’espansione del paese e una sorta di primato nel settore agricolo mantenuto fino a una ventina di anni fa, quando dalle vigne di Canicattì partivano per mezzo mondo le cassette piene di uva Italia. Una ricchezza che spingeva alcuni a definire Canicattì come la Milano del sud. Forse un po’ esagerato, ma comunque rende l’idea.
Nonostante tutto, però Canicattì sempre un paese restava. E ancor più nell’Ottocento. Dal nostro elenco dei mestieri sono assenti, non a caso, i venti medici che esercitavano la professione. Uno di questi era proprio Antonino Sciascia, laureato in medicina e chirurgia all’Università di Palermo nel 1860, a soli 21 anni – e Carmelo Sciascia Cannizzaro, suo biografo, a questo punto piazza un bel punto esclamativo che omettiamo per nostra personale avversione all’interpunzione enfatica. Certo è che una laurea a quell’età non era cosa da tutti, sia allora che oggi.
Se immaginate un medico di paese ottocentesco, allora avete già presente Antonino Sciascia. “La sua umanità lo portava a curare i suoi pazienti gratuitamente e non era raro il caso che mandasse a casa indigenti con nelle tasche laute elargizioni”, ricorda Sciascia Cannizzaro. E Adelfio Elio Cardinale, direttore dell’istituto di Radiologia dell’Università di Palermo, vi aggiunge una breve descrizione: “Tarchiato, fronte spaziosa, occhi acuti ma buoni, barba austera e profetica, colto e sempre aggiornato sui progressi della scienza medica”.
Umanità e intelligenza in un medico di provincia. Ma anche voglia di aggiornarsi, di incontrare altri colleghi e scambiare con loro opinioni ed esperienze: Sciascia infatti partecipava a seminari, congressi, lezioni universitarie. Con difficoltà, perché a quei tempi i viaggi dalla Sicilia verso il nord erano complessi e costosi. Ma comunque il medico lasciava Canicattì e si spingeva a Palermo, a volte a Napoli, perfino a Roma. D’altra parte, la sua vita di scapolo convivente con la sorella nubile restituisce il profilo di un uomo dedito alla sua professione, chino sui suoi studi, immerso nei suoi libri. Decise di sposarsi, infatti, solo a 77 anni, dopo la morte della sorella, con Isabella Macaluso, una vicina di casa più giovane di lui di trentatré anni che gli fece da moglie e da infermiera – era infatti quasi paralitico per una poliartrite – fino alla morte, nel 1925.
Una vita di studi, dunque. Dopo la laurea – a ventun anni, ricordiamo ancora – Antonino Sciascia, mentre curava i malati di Canicattì, nel suo gabinetto medico affacciato su una terrazza piena di sole, cominciava a maturare un’idea. In quel paese del sud, assolato tra campagne gialle di stoppie, dominato per lunghi mesi da un’estate implacabile, Sciascia iniziò a rendersi conto che la luce del sole non era soltanto una dannazione per i contadini costretti a faticare nel caldo dei mezzogiorni abbaglianti, ma forse poteva essere qualcosa di diverso. Il sole che in Sicilia poteva uccidere – il “colpo di sole”, l’insolazione che inebetisce e stronca – poteva anche guarire. Ma è il momento di allontanarci da Canicattì e dalla terrazza luminosa di Sciascia, lasciandolo per un po’ con queste sue strane idee.
Intanto, a migliaia di chilometri di distanza…come in un romanzo d’appendice, risaliamo su verso il nord, fino ai mari più freddi, quasi al Circolo polare artico. Nel 1860 – l’anno in cui Antonino Sciascia si laurea, ricordiamolo ancora – a Torshavn, una delle isole Föroyar, dette anche “isole delle pecore”, nasce Niels Ryberg Finsen. E’ un bambino gracile, di salute incerta, forse per questo costretto a rifugiarsi nei libri e nello studio. La sua isola, dominata dai ghiacci, da interminabili crepuscoli invernali e dilatate notti estive bianche, anela al sole. Finsen nemmeno può immaginare, dalla sua isola, cosa possa essere la luce delle estati di Canicattì. Ma anche lui guarda il suo immobile sole artico e scopre che quel chiarore lo fa stare un po’ meglio, lo studio si fa meno pesante, l’animo più leggero. E fin qui siamo tutti d’accordo, soprattutto i metereopatici.
Finsen prima studia a Reykjavik, in Islanda, poi prosegue a Copenaghen – il suo arcipelago rientra nei territori danesi – dove si laurea in medicina nel 1890 (a trent’anni, senza punto esclamativo). Si occupa dei suoi malati, forse di se stesso e della sua scarsa salute. Possiamo essere certi che il medico danese non saprebbe trovare Canicattì nemmeno su una carta geografica.
Torniamo in Sicilia. A forza di pensare e di riflettere, a forza di usare benevolmente come cavie i contadini che vanno da lui a farsi curare, Antonino Sciascia ha capito che la luce del sole, opportunamente dosata e filtrata, segmentata nelle sue componenti, può essere usata per accelerare la guarigione di alcune malattie della pelle, per agevolare la cicatrizzazione delle ferite, per risolvere alcune congiuntiviti tracomatose. Il medico di Canicattì si documenta: sa che anche gli antichi greci conoscevano l’influsso benefico del sole, ma nessun testo medico parla esplicitamente di una terapia solare.
E così, armato di ottimismo e di uno strumento che lui stesso ha inventato, nell’aprile del 1892 parte da Canicattì per Palermo, dove si svolge il tredicesimo congresso dell’associazione oftalmologica italiana (Finsen è sempre a Copenaghen, magari sotto la pioggia). Davanti a medici e oculisti, il dottor Sciascia svolge la sua comunicazione ufficiale: “La Fototerapia nelle malattie oculari”. Non ascolteremo tutto il suo intervento, ci bastino le parole d’esordio: “Ho l’onore di presentare, per la prima volta a questa scientifica adunanza, una nuova medicazione, basata sull’energia luminosa e che propongo di denominare Fototerapia”. Quel giorno stesso, presenta la sua invenzione: il Fotocauterio, cioè una lente che frammenta la luce, montata su un braccio mobile per misurarne la distanza di applicazione. Semplice, ma geniale.
I commenti alla scoperta sono entusiastici. Qualcuno arriva a dire che si aprono nuovi orizzonti alla terapia fisica. Congratulazioni, complimenti, attestati di stima. Sciascia torna a Canicattì, forse euforico. Ma presto si accorge che il silenzio è calato sulla sua rivelazione. Nessun giornale scientifico ne parla, nessun testo lo cita. In paese tutto va avanti come prima: le visite, i malati, la sorella signorina che si occupa della casa.
Ma Sciascia è testardo. Due anni dopo, ancora una volta con il suo strumento sotto braccio, lascia Canicattì, questa volta diretto a Roma. Si tiene il Congresso medico internazionale: un appuntamento troppo importante per mancare. Il medico siciliano si è preparato: “La Fototerapia in medicina e chirurgia e la cura specifica della risipela”. Bis di grande successo. Effetto clamoroso. Il simposio, in omaggio a Sciascia, viene ribattezzato Congresso della luce. Un giornale romano pubblica una dichiarazione del dottor Kossonis di Smirne: “Tante dotte comunicazioni hanno soddisfatto la mia mente e più di tutto una scoperta importantissima, di uno scienziato italiano, cioè l’applicazione della luce del sole per la cura delle malattie”. Insomma, per Sciascia è un trionfo. A proposito, dov’è Finsen? Non ci crederete, ma il medico danese viene segnalato al Congresso di Roma. Non ha parlato, ma ha ascoltato. E c’è da ritenere che abbia sentito pure l’intervento di Sciascia. Poi, uno è tornato a Canicattì, l’altro a Copenaghen.
Ostinato, Sciascia nel 1894 brevetta il suo Fotocauterio presso il Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio e ne chiede la “privativa industriale di anni sei”. Sembra convinto che la sua scoperta avrà grande diffusione, ma in fondo si limita a chiederne l’uso esclusivo per pochi anni. D’altra parte è uomo di scienza, sa che le idee corrono e diventano patrimonio comune; sa che lo scambio delle esperienze e la condivisione sono la radice del progresso. Ma non può immaginare quale disgrazia si prepara. Quella disgrazia che gli viene dall’essere nato a Canicattì.
Il buon Finsen ha studiato a lungo e ha scritto. Nel 1899, a Lipsia, pubblica una memoria in tedesco: Uber die Bederlung der chemischen Strablen des Lichtes. Parla di raggi solari concentrati, di applicazione della luce, di guarigione dalle malattie. Da buon europeo del nord che conosce il valore della lingua, la dominanza di alcune lingue sulle altre, il peso scientifico del gergo più comune e diffuso, fa stampare a Parigi, rigorosamente in francese, il libro La Phototerapie. La scoperta si ripercuote immediatamente nelle università di mezza Europa, dà una grande notorietà a Finsen che nel 1900 viene invitato al Congresso medico di Parigi dove parla dei risultati splendidi ottenuti nel lupus con la fototerapia.
Tira una brutta aria a Canicattì, nella casa del quartiere Badia. Antonino Sciascia, che pure è un uomo pacato, incapace di ire, sereno nel giudizio, comprende che la scoperta gli è stata scippata. Non può accusare Finsen di plagio, perché forse non si tratta di questo, ma avverte che ormai le sue idee stanno cambiando paternità. Il danese ha pubblicato in tedesco e in francese, Sciascia ha tenuto solo due interventi nel suo italiano dal forte accento siciliano: non c’è confronto. Finsen parla ai medici di Parigi e Lipsia. Sciascia a quelli di Palermo e Roma. Non c’è confronto. E’ vero che le idee nuove si impongono per la loro forza, ma è anche vero che bisogna saperle vendere nel modo giusto.
Nel 1902, ormai troppo tardi – troppo tardi – il medico di Canicattì tenta di correre ai ripari. Pubblica il trattato La Fototerapia, per i tipi della Società Editrice Dante Alighieri di Roma. Tenta affannosamente di dimostrare che i suoi studi risalgono almeno al 1890 (l’anno in cui Finsen si laureava, ricordiamolo sempre), elenca almeno 33 casi di malattie curate con la sua terapia fornendo nomi e cognomi dei pazienti, documenta con molte fotografie, allega il brevetto ottenuto nel 1894, sottolinea che “gli strumenti adoperati dal Finsen sono simili, per non dire identici, a quelli descritti nel mio brevetto d’invenzione”. Fornisce tutte le prove che il danese ha copiato o, nella migliore delle ipotesi, è arrivato alle stesse conclusioni con almeno cinque anni di ritardo. Forse Sciascia pensa di avere rimesso le cose a posto. Forse immagina che ora sarà dato a Canicattì quel che è di Canicattì.
Macché. Canicattì è troppo lontana. Lontana da Copenaghen, da Lipsia, da Parigi. Ma, soprattutto, è lontana da Stoccolma. Gli accademici di Svezia, nel 1903, nemmeno sanno dov’è Canicattì. E così, quando decidono di assegnare il Nobel per la medicina, secondo voi a chi lo danno? A Finsen, naturalmente. Il medico danese si prende la più prestigiosa onorificenza del mondo, oltre duecentomila lire in moneta svedese e una bella motivazione che dice: “In riconoscimento dei contributi resi alla cura delle malattie, soprattutto per quel che riguarda il lupus volgaris, attraverso radiazioni luminose concentrate, aprendo così la strada a nuove ricerche per la scienza medica”.
Mica male. Poco dopo, l’università di Copenaghen dà a Finsen la cattedra di anatomia alla facoltà di medicina. Non vogliamo neppure lontanamente immaginare cosa abbia provato Sciascia quando venne a sapere, a Canicattì, del premio Nobel a Finsen. Sicuramente, non avremmo voluto essere nei panni della sorella signorina che forse in quei giorni ebbe più premura e cautela nell’accostare piano le porte di casa per non far rumore, a non urtare ancor di più l’animo già esasperato del fratello medico. Ma cosa poteva fare il povero Sciascia? Poteva soltanto ripetere a se stesso che la sua disgrazia era solo una, quella di essere nato a Canicattì.
A onor del vero, e per dovere di cronaca, tocca dire che dopo il Nobel, incontrando a Berlino un luminare italiano, Finsen riconobbe che Sciascia era il creatore della Fototerapia. Espresse apprezzamento e ammirazione, ma si tenne il Nobel e le duecentomila lire. Ma, pure lui, cosa poteva fare di più? Rinunciare al premio o dividere a metà con Sciascia? Uno stava a Copenaghen e l’altro a Canicattì, non era neanche facile incontrarsi per mettersi d’accordo. A pareggiare il conto dei debiti e dei crediti, ci pensò ancora una volta la vita stessa. O la morte. Nel 1904, un anno dopo il Nobel, Finsen se ne andò nell’aldilà. Aveva appena quarantaquattro anni. Il dottor Antonino Sciascia gli sopravvisse per altri vent’anni, forse con una certa amarezza o forse con l’animo sereno di chi ha imparato, in una lunga esistenza, che non si può vincere il Nobel se si nasce a Canicattì.
_________________________
Tratto dal libro “I Siciliani”, di Gaetano Savatteri, edito da Laterza