Un episodio inedito lega lo scrittore e drammaturgo francese, autore de “La signora delle camelie”, ai due paesi. Lo racconta Venerando Bellomo
Il giusto vivere rimane definito dal non rendere assorbente e totalizzante solamente una delle espressioni della propria persona, traducendosi nella continua ricerca di quella divina proporzione che, per obbligo di natura, renda personalizzato il principio millenario del suum cuique tribuere.
Ciò comporta il muoversi tra labili, e spesso, impercettibili confini, nel tentativo di dare, come é d’uso dire, senso alla vita. In queste triangolazioni di non prevalenza o di prevalenze contingenti, ognuno inserisce ciò che più gli è gradito e che spesso, a voler richiamare l’otium, sfocia nella contemplazione delle arti.
E l’arte del raccontare ha come corrispettivo la piacevolezza dell’ascoltare, sì che ci vuole reciproca buona sorte a trovare, per l’avido ascoltatore, chi le cose le sa narrare, facendo tramutare l’ingranaggio delle parole in qualcosa di simile ad un ologramma e, per l’amabile narratore, l’ascoltatore smodatamente desideroso di conoscere le caleidoscopiche ricostruzioni dei fatti. Quasi per un fenomeno di elettromagnetismo umano, il buon narratore e l’interessato ascoltatore, prima o poi si trovano, mossi come sono da ragioni di reciproco interesse intellettuale, che spesso è anche comunanza ancestrale di un sentire comune: ed è in quel momento che si compie questa specie di magia. Per questi interlocutori, oserei dire “fatalmente ritrovati”, il fatto raccontato, almeno per loro, non si pone in termini di verità, per come comunemente la si intende, appartenendo questa alle aule di giustizia, ma di fascino e bellezza.
E quest’arte del raccontare prendeva corpo in ambito familiare, dov’era ancora vigente, anche se silente, la regola del maggiorasco: non quale norma dal fondamento anagrafico, anzi spesso da ciò prescindente, ma di custodia di antichi saperi.
Per mia passione, ho sempre cercato le storie o queste, magari, hanno cercato me: comunque, io e loro, ci siamo ritrovati. In questa empatia, un frammento qualsiasi si ritrova ad essere l’innesco per l’opera che inizia, ed è il prender forma corporea di donne, cavalieri, amori e imprese fascinosamente mirabolanti.
Pur standocene in luoghi distanti, ma tecnologicamente vicini, mio cugino è uno che le cose le sa raccontare, inizia un discorso, prima, a passo lento d’alpino, quasi vago e fumoso, poi, a passo di corsa del bersagliere, ritmato e puntuale, riesce ad avviluppare percorsi inimmaginabili, muovendosi, con suo estremo agio, per i sentieri dell’anima. Ogni volta è come ritrovarsi nel bel conversare standosene comodamente seduti in avvolgenti poltrone di un salotto tra l’odore legnoso del sigaro e il sapore gradevolmente sferzante del brandy. Tra una divagazione e l’altra, un ricordo reciproco che, pur sembrando una nota stonata, avrebbe voglia di insinuarsi in quel discorrere che non gli appartiene. Se poi, come alle volte accade, si aggiungono le coincidenze, quello che era un suo ricordo di bambino s’interseca con la mia contingente lettura della stringata cronaca della tappa agrigentina del grand tour di Alexandre Dumas.
Erano i primi di ottobre quando mancò Papa Pio XII ed era il periodo della sede vacante e i cattolici erano incupiti da quelle foto apparse sui giornali ad opera archiatra pontificio. In paese, con l’inizio dell’anno scolastico, iniziavano le attività dell’Azione Cattolica che, per i bambini delle elementari, seguivano la messa mattutina, loro dedicata. Ed in quel frangente, il muoversi silenziosamente e con compungimento era non solo d’obbligo, ma dovuto al lutto collettivo, nonostante l’età spingesse a quella gioiosa scalpitante vivacità. Così che poi, erano le strade, odoranti del mosto appena versato nelle botti, a diventare, diciamo per naturale sfogo, palcoscenico di frizzi, lazzi e di giochi arrangiati ed improbabili, ai quali seguiva, com’era allora costume, la visita ai parenti anziani, anche lontani, che usualmente erano chiamati zii.
Ed il racconto questa volta trovava origine da una visita che il bambino di allora fece ad una vecchia zia che, nella sua casa ostinatamente fin de sieclè, avvolta da profumi mielosi, trine, organze e merletti, accennava al pianoforte un’aria famosa della Traviata. A quelle note di valzer, la zia Ciccina, com’era suo solito, quasi con approccio didattico, fece seguire il racconto della trama, così come la conosciamo. Ma ciò che, nella narrazione, dava fascino stava nell’antefatto – che raffinatamente impreziosiva l’originale e definitivamente lo cementava in una storia tutta locale, anzi familiare – del quale lei era depositaria e che in quell’occasione celebrava il passaggio dell’antico sapere alla generazione che si affacciava alla vita.
Com’era usanza all’epoca, chi aveva figlie femmine pensava molto per tempo al loro corredo nuziale, tanto erano complicate sia la reperibilità e la scelta dei tessuti, che alcune volte dovevano essere importati dall’estero, sia il tempo che si impegnava nel confezionamento dei singoli pezzi. Ed erano giornate intere di ricamo al telaio e di lavoro di precisione dovuta nell’arte dell’intaglio o del cinquecento siciliano. Così il nonno della zia Ciccina, in una delle spedizioni cittadine a ricercare stoffe, nel negozio di fiducia della capitale, che forniva anche i figurini, per il corredo delle figlie, trovó nel negozio palermitano di quel suo lontano parente siciliano che, durante la tappa, era andato a visitare, quello che soltanto dopo sarebbe divenuto l’autore della “Signora delle camelie”.
Seguirono presentazioni e convenevoli del galateo d’ospitalità, tanto da crearsi nell’immediato una reciproca simpatia, che poi, fu cementata in amicizia nella sosta agrigentina di “monsieur Dumas”, tanto da essere, piacevolmente, invitato a cena nella casa di paese del nonno, tra Grotte e Racalmuto.
E fu un conversare di belle lettere, di musica, ma anche di un vivo interesse per l’economia zolfifera. Alla fine il nonno, veramente entusiasta dell’incontro e della serata, fece omaggio a monsieur di una scatola di sigari e una di zolfanelli.
Molto tempo dopo, così la raccontava la zia Ciccina, arrivó una lettera di Dumas, che ancora ringraziava per quella gradita serata e per l’amicizia mostrata. Tra le cose, raccontava di essersi trovato, in una giornata ventosa, in strada a Parigi, quando gli venne voglia di fumare un sigaro, che provò ad accendere con uno di quegli zolfanelli che gli erano stati donati, trovando momentaneo riparo in un androne.
Notò, perplesso, un gran andirivieni per le scale. Incuriosito seguì, senza pensarci, il flusso di gente che saliva e si trovó in un appartamento che lì seppe essere appartenuto ad una favorita, e dove, morta da poco lei, i creditori avevano messo all’asta quelli che erano stati i suoi averi. Girando e rigirando tra mobili, argenterie, quadri e porcellane, forse per deformazione di mestiere, forse senza alcuna specifica e cosciente ragione, compró un libro e si guadagnò l’uscita, dando un ultimo sguardo a quella dimostrazione della precarietà terrena.
Per le scale, fu raggiunto da un giovane dall’aspetto sconfitto e con gli occhi cerchiati dalla stanchezza dell’anima, che insisteva nel voler ricomprare quel volumetto, tanto che Dumas incuriosito da quella insolita proposta gliene chiese la ragione. Si trovarono seduti al tavolino di un caffè dove quel giovane, con le lacrime silenti che gli solcavano il viso, gli raccontó quella triste storia, che poi la mirabile penna dello scrittore rese in quel suo famosissimo romanzo.
E così la zia Ciccina commossa concludeva quel racconto e le sue dita si posarono sulla tastiera del pianoforte e lei, con voce tremula, intonò “amami Alfredo”. Mentre, nel canto, la sua voce moriva quasi in un singhiozzo nell’accordo finale, per un momento, solo per un momento, apparvero come avvolti nei vapori dello zolfanello i volti di quegli sfortunati amanti.