Da oggi a San Donato Milanese la mostra delle sue opere. Gaetano Savatteri: “..Franco tentava sempre di affrancarsi dall’ossessione siciliana per il blu, dominante impressa nelle pupille di chi vive dentro un’isola circondata dai mari..”.
Nell’estate del 1953 arriva ad Agrigento un furgoncino Citroën. A bordo tre bambini e tre donne una delle quali incinta, alla guida un autista spericolato e inesperto che si avventura per le disastrate e polverose strade siciliane: sono turisti francesi. Il vecchio furgone è arrangiato come un camper ante-litteram. È un’epoca ancora senza turismo di massa, tranne per i pochi ricchi viaggiatori che scendono negli hotel di lusso, ma quasi nessuno si accorge veramente del furgone Citroën, nonostante abbia un aspetto alquanto insolito e buffo. I passeggeri sembrano dei morti di fame: restano qualche tempo ad Agrigento, girano per la città e per la Valle dei Templi, al tramonto vanno in spiaggia.
L’autista che guida questa spericolata e folle traversata, partita dalla Provenza, è Nicolas de Staël, pittore di origini russe, residente a Parigi e considerato un grande artista al livello di Picasso e di Braque. Ma ad Agrigento non lo sa nessuno, de Staël passa ignorato e non resterà alcuna traccia della sua permanenza per il sud più a sud d’Europa. Anzi, no. Resta testimonianza in alcune sue tele, intitolate proprio “Agrigento”. E ne resta l’impronta nelle lettere e negli appunti in cui lo stesso Nicolas de Staël, che in quel momento ha 39 anni, una fama internazionale e l’anno prima ha esposto a New Yok, descrive l’accecamento della luce e lo smarrimento per questi cieli immensi, a punto tale che il pittore si sentirà un naufrago in questo abbaglio splendente, in questa folgorante solitudine, in questo annichilimento del colore. Uno straniamento estremo che finirà per condurlo, nel giro di alcuni mesi successivi, al suicidio.
Per Franco Fasulo, e per me, il passaggio di Nicolas de Staël da Agrigento – con tutte le conseguenze derivate nella sua pittura e nella sua vita – era un’incredibile suggestione. Ne parlavamo, ci scambiavamo libri, foto e ipotesi. Franco era nato e cresciuto in quell’abbaglio di sole, di cielo e di mare che è Agrigento: lo aveva negli occhi e se lo era portato al nord, dove aveva deciso di andare a vivere. Con la sensibilità del pittore che sa quanto possa pesare la luce, Franco provava a immaginare quale potesse essere lo sconcerto di un russo di san Pietroburgo abitante a Parigi che di colpo scopre l’assoluto del paesaggio siciliano: il giallo del tufo delle rovine simile al giallo della sabbia delle spiagge, l’arsura delle campagne riarse che circondano la città calcinata di canicola.
In un libretto che raccoglieva le lettere di de Staël, Franco aveva inserito un foglietto con la poesia di Salvatore Quasimodo Tempio di Zeus ad Agrigento. É un suo regalo che custodisco. Un verso della poesia è sottolineato: «che mare getti nella luce stretta d’un occhio». Era il mare che forse aveva perduto e confuso de Staël, lo stesso mare che Franco conosceva, amava e scrutava con gli occhi suoi chiari.
E di mare ce n’era nelle tele di Franco: non diretto, non paesaggio o sfondo di paesaggio, ma evocato come memoria, come ruggine su scafi di vecchie navi, come gomene strette alle bitte, come spazio da solcare portandosi dietro detriti e macchie. I mercantili di Franco odoravano di mare, di porti, di nafta, di salsedine. Dicevano del mare da viaggiare, non solo di quello da guardare. Franco tentava sempre di affrancarsi dall’ossessione siciliana per il blu, dominante impressa nelle pupille di chi vive dentro un’isola circondata dai mari. Anche per questo amava de Staël che aveva dipinto i cieli di Agrigento non blu, non celeste, ma rossi e gialli o addirittura neri per restituire l’accecamento della luce che perde i suoi colori e si fa abbaglio implacabile.
Per la copertina di un mio romanzo pubblicato da Sellerio ho voluto un quadro di Franco: è la storia di una donna che si perde in mare, una storia sulla difficoltà di avere una propria identità, una storia sulle beffe della Storia. Nella tela di Franco c’è l’immagine di una nave ormeggiata, trasuda ruggine e salmastro. Il mare non si vede, ma se ne sente l’odore leggermente marcio nel vento popolato di grida di gabbiani.
Penso che Franco sia sul ponte di una rugginosa nave cargo, in qualche mare del mondo: in fondo tutti i mari sono uguali a quello di Agrigento, quel «mare africano» così denso di storie, tragedie, sfumature. Con gli occhi «nella luce stretta» cerca di indovinare se quel mare sia colore del vino o di altro colore. Il mare. La luce. Lo splendore folgorante e solitario di un cielo meridiano. Franco è andato verso il suo mare. La sua immagine, in controluce, si sovrappone a quella di Nicolas de Staël, così come lo ricordava la figlia Anna in un fotogramma di quel forsennato viaggio per l’Italia, così lungo e difficile, fino a toccare Agrigento, il fondo dell’Italia: «Siamo scesi a fare il bagno. Il mare alla fine del giorno era come aria plumbea. Ho visto mio padre allontanarsi nuotando nel velluto, l’olio e il piombo del mare, e allontanandosi solo, lontano, assai lontano. La notte chiudeva il mare. Per me non vi era più ritorno possibile, d’altronde non è mai tornato».