Abbiamo rischiato in Sicilia, a largo di Sciacca, un conflitto mondiale. È questa l’estrema sintesi di un illuminante incontro sull’isola Ferdinandea organizzato da Tony Russo e svoltosi alla Badia Grande, con gli interventi degli storici Michela D’Angelo e Rosario Lentini.
Ho seguito con estrema attenzione i loro interventi, pensando all’attualità, alle guerre in Ucraina e in Medio Oriente e a tutte le altre guerre in corso in altre parti del mondo e ai conflitti che ci sono stati nel vicino passato e che ancora sono nelle nostre carni.
E a Sciacca, come si suole dire, si stava arrivando sul punto di non ritorno con le super potenze militari dell’Ottocento che per mesi si sono contese un pezzo di terra spuntato dal niente, a prendere una boccata d’aria e un po’ di caloroso sole.
Come gli astronauti sulla Luna, avevano ognuno piantato la propria bandiera di conquista sull’isola di Sciacca sorta tra giochi d’artificio e balli di mare dalla pancia ribollente del vulcano sottomarino Empedocle.
L’Inghilterra: “Graham è nostra!”
La Francia: “Si chiama Julia ed è solo della France, non scherziamo col fuoco”.
Il Regno delle due Sicilie: “Ma dove andate con lo scecco? Nostra è Ferdinandea! Non babbiamo che a schifìo finisce”.
Tutto questo nel cuore del Mediterraneo, nel 1831, per un pezzo di terra sorta per magia, per il suo possesso, per un interesse militare, strategico, politico, economico e anche di prestigio: “Qui comando io e questa è casa mia!”.
Tensioni alle stelle a livello internazionale, si direbbe oggi nelle tv che mostrano le distruzioni dei cannoni e corpi dilaniati.
Ci ha salvato Empedocle, sensato capo famigghia, e dobbiamo per questo essergli grati in eterno. Appena ha visto la mala parata ha deciso di togliere il disturbo, ritirando la propria figghia, proprio in questo periodo, nel periodo dei morti.
Sorta festosamente a luglio, Graham-Julia-Ferdinandea ha cominciato a ritirarsi in autunno sciogliendosi lentamente da novembre a dicembre, facendoci celebrare il Natale in santa pace con il regalo del corallo che gli artisti saccensi trasformano in splendido gioiello in ricordo dell’isola che non c’è ma che c’è ancora.