Fondato a Racalmuto nel 1980

Vedove e macellai in Sicilia: la festa dei morti

Detti e modi di dire intorno alla morte, tra ironia, indovinelli e tragedia. Lo studio di Angelo Campanella, dottorando in Studi umanistici presso l’università di Palermo

Frutta marturana (foto Archivio Malgrado tutto)
Il due novembre in Sicilia è un giorno di festa pieno di colori: frutta martorana e pupi di zucchero occhieggiano dalle pasticcerie e i morti entrano in contatto con i vivi, portando doni. Eppure, la morte, nella Sicilia contadina, non era priva dei toni cupi delle vedove, degli specchi velati, del bottone nero da apporre come spilla sul bavero della giacca e, in tempi ancor più remoti, del fiocco nero da legare alla manica e da esporre dietro la porta, con la scritta «per mio marito, figlio, padre, ecc.».
Nella Sicilia di un tempo, la morte di un uomo rappresentava una tragedia familiare: le donne si ritrovavano in una prigione di povertà e la vedova era chiamata cattiva, dal latino captiva, prigioniera. A Racalmuto c’era il detto «Li cattivi cèrcanu carni e li vuccera si tròvanu ammazzati» [Le vedove cercano carne e si scopre che i macellai sono morti ammazzati], a indicare una condizione immutabile e fatale. La carne era un bene di lusso e se una vedova, per una concorrenza di casualità, avesse trovato un giorno le risorse per acquistare della carne, i macellai sarebbero stati tutti morti.
Si dice «Morti e paṭṛuni, nun aspittari quannu veni» [Morte e padrone, non aspettare quando arriva], ma talvolta il peso della vita è difficile da trascinare e allora «Cchiù facili è a mòriri ca a campari» [Morire è più facile di vivere]. Anche la vita di coppia può essere pesante: «Migliu mòriri ca stari cu tia» [Meglio morire che stare con te], e, dopo una lite, «Mancu si ti vidu mortu a fazzu a paci» [Non faccio la pace nemmeno se ti vedo morto], fino alla morte che giunge liberatoria, «Morti a tia e saluti a mia» [Morte a te e salute a me], o che viene augurata al fine di liberarsi di qualcuno: «A mòriri tu cu tutti i santi» [Devi morire tu con tutti i santi].
Cimitero di Racalmuto (foto S. Picone)

Tali auguri, però, sono gravidi di pericolo, in una società attenta alle superstizioni: «Cu desidera a morti di l’antru, chiḍḍa su’ e darrì a porta» [Chi desidera la morte altrui, ha la propria dietro la porta], «Murì unu: ora nantri tri n’ann’a mòriri» [È morto uno: ora devono morirne altri tre], «Morti e malasorti unni vai ti la porti» [Morte e malasorte te le porti ovunque vai]. La morte è attesa anche per una compensazione cosmica, per una sorta di legge naturale che accomuna tutti gli uomini: «Murtu un papa si nni fa n’antru» [Morto un papa se ne fa un altro]; «La morti tutti attrova e lu munnu si rinnova» [La morte trova tutti e il mondo si rinnova].

Leonardo Sciascia in Occhio di capra registra: «E lu cuccu ci dissi a li cuccuotti a lu chiarchiaru nni vidiemmu tutti. […] Al chiarchiaru, dunque, è come dire agli inferi, a un luogo di morte in cui tutti ci incontreremo». Letteralmente il chiarchiaru è una pietraia, ma diviene metafora di un luogo di morte probabilmente perché per la sua configurazione geomorfica era spesso eletto per far scomparire i cadaveri. Inoltre, si dice «Sulu a morti un c’è rimediu» [Solo alla morte non c’è rimedio], «Si sapi unni si nasci ma nun si sapi unni si mori» [Si sa dove si nasce ma non si sa dove si muore]. Il carattere imprevedibile della morte è sottolineato dal detto «A morti piglia u giòvani e lassa a vecchia» [La morte prende il giovane e lascia la vecchia].
E c’è spazio anche per l’ironia: «L’erba tinta un mori mai» [L’erba cattiva non muore mai], «L’omu gilusu mori curnutu» [L’uomo geloso, muore cornuto], «Viegnu di lu muortu, e mi dici ch’è vivu» [Vengo dal vederlo morto, e tu mi dici che è vivo] per apostrofare chi nega l’evidenza. Per tirare un sospiro di sollievo, dopo un pericolo scampato, si dice: «Vitti a morti ccu l’uocchi» [Ha visto la morte con gli occhi] o per essersi sbarazzati di un clan, sia in senso letterale sia in senso figurato: «Murì u figliuzzu cu tutti i cumpari» [è morto il figlioccio con tutti i suoi compari].
Concludiamo con un indovinello sul tema: «Cu lu fa lu vinni, cu l’accatta ‘un l’usa, cu l’usa ‘un lu vidi» [Chi lo fa lo vende, chi lo compra non lo usa, chi lo usa non lo vede]. La soluzione è u tabutu, la cassa da morto.

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