Un mistero che dura da secoli, che tanto fece dannare lo storico Nicolò Tinebra Martorana. E ancora si dibatte…
Nicolò Tinebra Martorana, lo storico di Racalmuto che nel 1897, a soli ventidue anni, pubblicò Racalmuto Memorie e tradizioni, ci provò a denunciare quello che per lui era “falso e bugiardo” e di “indegna mistificazione”. Si dannava nel vedere, nello stemma del Comune di Racalmuto, quell’uomo nudo che fa il segno di silenzio guardando una torre chiusa. Sosteneva, il Tinebra, di aver avuto tra le mani “atti autentici della fine dei secoli XVII e XVIII riguardanti il nostro Municipio… in molti di essi potei osservare – scrisse – il vero stemma di Racalmuto… uno stemma come l’attuale, con corona di comune che possegga più di 3000 abitanti. Una torre d’oro e dinanzi ad essa un uomo; ma l’uomo non è nudo, bensì veste una gonnellina dentellata ai margini, come un antico guerriero romano. Con la mano destra impone silenzio; ma con la sinistra sostiene una larga, corta e diritta spada, terminante a sbieco e che offre l’immagine di un gladium romano”.
Davvero l’uomo dello stemma di Racalmuto non era nudo e aveva una spada in mano? E perché ad un certo punto fu spogliato? A chi non piaceva? Chi si prese la briga di cambiare questo particolare dello stemma? Un vero mistero.
Un mistero che non sarà sfuggito di certo a Leonardo Sciascia che invece sottolineò il significato dello stemma: “…un uomo nudo che fa il segno di silenzio di fronte a una torre ermetica… forse alludeva al silenzio che prudenza vuole si faccia di fronte al potere, ma non a un silenzio di desistenza, di quiescenza. A un silenzio di preparazione, piuttosto, a un silenzio memore e, sulla realtà effettuale, intelligente”.
A Sciascia sicuramente piaceva questo simbolo (ridisegnato in anni recenti da Massimo Ghirardi per “Araldica Civica” e alcuni decenni fa proposto anche da Giuseppe Troisi in un disegno ancora conservato nella stanza del sindaco, in Municipio). Sciascia quasi ci si specchiava, come sosteneva anche Gaspare Giudice in un saggio dedicato allo scrittore racalmutese. “Questa prescrizione del silenzio si è come introvertita, per lungo ordine d’anni, nella gente, in ciascuno – scriveva Sciascia – è diventata una qualità, una peculiarità, un elemento distintivo del carattere. Si ama più tacere che parlare. E quasi che i lunghi silenzi davvero servano a fortificare il raro parlare, quando si parla si sa essere precisi, affilati, acuti ed arguti”. Ed è vero. I Racalmutesi sono così. Forse per questo ci piace questo stemma, vero o falso che sia.
Ma gli storici, gli appassionati, qualche studente, potrebbero, prima o poi, andare a cercare, solo per un fatto di curiosità, di passione, di amore per le cose del paese, una traccia dell’antico stemma. Come sta facendo Angelo Cutaia. Come ha fatto Calogero Taverna, ricercatore appassionato e autore di numerosi volumi sulla storia di Racalmuto. Ma Taverna ha trovato tutt’altro. Uno stemma del feudalesimo del Seicento con bande gialle e corona comitale. Senza uomini nudi, senza gonnelline e senza spade, senza torri e senza scritte. Uno stemma dei tempi dei Del Carretto che si trova in uno dei dipinti del pittore Pietro D’Asaro. Ma questa è un’altra storia. E forse un altro mistero.