Con le prime elezioni repubblicane accanto ai politici erano presenti i poeti o rimatori di area. Le rime di Giovanni Zaffuto e di Emanuele Pillitteri
Secondo Jorge Luis Borges le storie dei romanzi non sono infinite come potrebbe credere ogni autore che si accinge a scrivere, ma sono riconducibili soltanto a quattro archetipi: “Quattro sono le storie. Per tutto il tempo che ci rimane, continueremo a narrarle, trasformarle”.
“La più antica, è quella di una forte città assediata e difesa da uomini coraggiosi. I difensori sanno che la città sarà consegnata al ferro e fuoco e che la loro battaglia è inutile; il più famoso degli aggressori, Achille, sa che il suo destino è morire prima della vittoria”.
“Un’altra storia, che si ricollega alla prima, è quella di un ritorno. Quello di Ulisse, che dopo aver errato per dieci anni per mari pericolosi, dopo essersi fermato su isole incantate, ritorna alla sua Itaca”.
“La terza storia è quella di una ricerca. Possiamo vedere in essa una variante della forma predente: Giasone e il Vello; i trenta uccelli del persiano, che attraversano montagne e mari e vedono la faccia del loro Dio, il Simurg, che è ognuno di loro e tutti loro”.
“L’ultima storia è quella del sacrificio di un Dio. Attis, in Frigia, si mutila e si uccide; Odino sacrificato a Odino, Egli stesso a se stesso, pende dall’albero nove notti intere ed è ferito da lancia; Cristo è crocifisso dai romani.”
Con ogni evidenza, ciò non può che riferirsi al thema e non certamente al modo di scriverle o di raccontarle. Ed è proprio su questo aspetto prevalgono, invece, molto le sonorità, la lingua usata: mutando, per conseguenza, notevolmente la percezione ed il gradimento del pubblico: di chi legge, di chi ascolta. Nel 1969 Gigliola Cinquetti presentò a Sanremo la canzone “La pioggia”, e cantandola in francese ne venne mutato il titolo in “L’orange”: stessa struttura metrica, ma sonorità “percettiva” molto diversa. Quindi la questione riguarda la narrazione e la lingua usata – che può essere anche una metalingua, come in Camilleri – a parità della struttura di ciò che viene narrato. E la verifica è ancor più evidente se lo stesso testo è contemporaneamente espresso in due lingue differenti. Per rendere l’idea, viene in mente ancora un’altra canzone presentata al festival di Sanremo: “ Spunta la luna dal Monte”, che Pierangelo Bertoli cantò con i Tazenda. Dove la stessa strofa era prima cantata nel dialetto sardo e poi declamata in italiano, tanto che assumeva sonorità e colori assolutamente diversi, ma suggestivamente complementari, che lo spettatore distratto avrebbe detto “non c’è parentela”, o per dirla con Johnny Stecchino: “ non m’assomiglia per niente”.
Quindi ogni narrazione per la sua efficacia ha bisogno di un linguaggio particolare, afferente. Dove lo stesso contenuto narrativo è dominante rispetto a quella che potrebbe essere l’astratta volontà dell’autore. E non è un caso che spesso un testo per dare il massimo del suo rendimento non può che essere espresso in forme vernacolari rimate. E questo lo sanno bene i rimatori estemporanei, che trovano la loro massima espressione in Toscana. Ma anche le altre regioni non sono da meno, con profonde e paradossalmente variabilità locali. Tanto che, nel tempo, gli autori, che spesso hanno affidato la loro abilità alla forma poetica (con predilezione per la rima baciata), per il contenuto variegato dei componimenti sono da assimilare, naturalmente con le dovute proporzioni, agli scrittori d’impegno civile. Caustici, ironici, spesse volte redarguitori, censori del lassismo dei costumi, delle storture politiche, ve n’è ancora ricordo ed in alcuni posti ancora se ne perpetua la tradizione. Ne ha più volte scritto su “Malgradotutto web” Gaetano Savatteri.
Afferma l’autore che “Con la fine del fascismo e la nascita della democrazia, la poesia politica racalmutese ha preso avvio e coraggio. Lunghe o brevi, a volte infarcite di una buona conoscenza sia del dialetto in versi che delle tecniche metriche, le poesie hanno accompagnato – spesso mal tollerate – sindaci, assessori e consiglieri comunali. Già, perché gli strali in rima si concentrano quasi sempre verso gli amministratori locali. Non appena qualcuno conquista una carica pubblica, l’anima racalmutese immediatamente lo strapazza, ne svela i peccati morali e privati, le meschinità personali. Insomma, un’operazione di demistificazione – a volte qualunquista, a tratti disfattista – ma sempre nutrita da uno spirito caustico che é proprio della gente di Racalmuto”.
Ma il fatto non si limita di certo a Racalmuto, ma si estende ad un’area geografica maggiore, tanto che in parallelo alla definizione sciasciana del Pirandellismo di natura, vi è la tentazione di pensare a un Vernacoliere di natura.
E a Grotte, con le prime elezioni repubblicane, accanto ai politici erano presenti, anche se non contemporaneamente, i poeti o rimatori di area.
Così per la Democrazia Cristiana sono da ricordare le rime di Giovanni Zaffuto per le elezioni regionali del 1951 che ironicamente volgeva i suoi versi tanto all’MSI, quanto al PCI. Vi è ancora memoria di quando declamò: “Avera a diri Massi e dissi Missi / lu votu a stu partitu nun ci lu dassi!/ Cu sunnu chissi li fascisti farsi?”. E nello stesso componimento rivolgendo i suoi strali al PCI scriveva: “Parlannu di lu partitu cumunista/ si vincinu farannu ‘nna minnitta/ minestra di cucuzza e aglia fritta:/ chissu è lu megliu ranciu chi vi aspetta!”.
A distanza di anni in seguito alla crisi dell’amministrazione di sinistra del 1960 ed alla nomina del Commissario Prefettizio, Emanuele Pillitteri, di area di sinistra, scriveva: “Ardicasi dissi a lu Commissariu:/ “Senza mintiri carti a gammallariu/ senza cumminarimi un putiferiu/ ca fra sei misi a lu stessu orariu/ sugnu sinnacu arriè: parlamu seriu”.
Ma, tutt’oggi, c’è ancora qualcuno che ha amor di rima, non più politica, non più di costume, ma di genere variegato ma pur sempre sovraccarico di sentimento popolare: quasi una forma di religiosità.
Capitò una volta, nella sala d’aspetto del medico, di ritrovare un poeta in vernacolo. Diceva di aver cominciato tardi a comporre, ma fu una folgorazione; lo diceva con gli occhi lucidi e ben si comprendeva che il naufragar gli è dolce in questo mare. A fior di labbra, per non essere inteso dagli altri, declamava qualche verso: di contadini, zolfatari, bandiere rosse. Chiedeva se anch’io ero interessato alla poesia, e per non dispiacerlo annuivo. Diceva che la poesia per esser tale deve avere la rima: chiaramente, s’intende, quella baciata. Poi, timidamente, domandava se anch’io avessi scritto versi: non potevo tirami indietro, sarebbe stato per lui un dispiacere. “Mi fa sentire qualcosa”. “Ma no, sono versi infantili, cose di quand’ero ragazzino”, cercavo una via di fuga. “Lasci decidere me, che sono del mestiere”. Mi venne in mente un vecchio stornello d’improvvisazione d’osteria. Premettevo che era qualcosa di poco degno. “Non si preoccupi…” disse. Con contrizione, impercettibilmente, iniziai “ Si haiu un figliu lu chiamu Ninu/ ca quannu è ranni mi porta lu vinu”. Mi guardò perplesso: “Non se l’abbia a male” disse “ aveva ragione lei, fa proprio schifo”. Ci siamo incontrati tante altre volte, abbiamo parlato del tempo, del governo, non più di poesia.
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