Fondato a Racalmuto nel 1980

“La violenza di genere ancora c’è ed è pure diffusa, insopportabilmente diffusa”

Le riflessioni di Vincenzo Campo sul film di Paola Cortellesi C’è ancora domani

Vincenzo Campo

C’è ancora domani di Paola Cortellesi, con Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea…È il film del momento; tutti ne parlano e tutti ne sono entusiasti. Ieri, a fine film, sala pienissima – l’ho visto dalla seconda fila – c’è stato pure l’applauso finale. L’entusiasmo è corale e non c’è una sola voce critica, non c’è un solo appunto. È un film perfetto. Gli attori sono tutti bravissimi e c’è un Mastandrea praticamente irriconoscibile per come è truccato e pettinato. Bravissimo, in una parte odiosa, “da stronzo”, dice Diego Bianchi – Zoro quando intervista Cortellesi sul film.

Il ritratto di Roma, soprattutto della Roma del popolo, di quella proprio povera dell’immediato fine guerra è bellissimo; e s’intravede pure la Roma che stava bene, la Roma “borghese”. Si intravede, di sguincio; e c’è un accenno agli squilibri nei rapporti uomo donna anche in quella Roma. Ma lì, in quella Roma, solo un accenno.

La violenza è comunque sottoproletaria. Neanche proletaria, proprio sottoproletaria.
E non è neanche diffusa, questa violenza; non è di tutti, ma fra quei poveri è solo dei più poveri. Nel quartiere è solo Delia a subire la violenza (feroce) del marito; e si capisce anche perché: per l’educazione ricevuta dal padre del marito, Ottorino, anziano (finto) allettato, scaltro e opportunista e che vive con loro e che teorizza l’opportunità dei matrimoni in famiglia, fra cugini – che sono i matrimoni migliori.

E violento minaccia d’essere anche il fidanzato di Marcella, la figlia; Giulio, figlio di parvenu, nuovi ricchi che a Roma vengono dalla provincia, che hanno un bar e che benestanti si sono fatti col mercato nero. Questi sottoproletari non sono, ma sono di quelli che s’arrangiano, che forse sottoproletari erano, di quelli che sanno arrangiarsi e hanno saputo trarre il vantaggio proprio dalla disgrazia della guerra che era disgrazia per tutti gli altri. Insomma: anche questi personaggi negativi.

Ma tutti gli altri, nel quartiere, tutti a conoscenza della violenza che Ivano esercita su Delia, ne sono esenti, tutti sono solidali con Delia; lo è perfino la portiera acida e ipercritica nei confronti di chiunque e che è pure invidiosa della figlia dei due e del buon matrimonio che quest’ultima s’appresta a fare. Anche lei è solidale con Delia, con la quale non va per niente d’accordo e con la quale pure baruffa; nonostante l’acidità sua propria e l’invidia che la rode, è di nascosto da Ivano, che dà a Delia una lettera a lei indirizzata e, nel dargliela, sottolinea che la dà a lei direttamente perché Ivano non la veda e che lei, comunque, si fa i fatti suoi. Solidarietà fra donne? Forse. Manifesta presa di distanza dall’autoritarismo violento di Ivano in ogni caso.

Insomma, la violenza è fatto endemico della e nella famiglia di Ivano, genetico e anche di cattiva stella delle donne di quella casa; della povera cugina e moglie di Ottorino che si era gettata dal quinto piano per morire (e qui la genetica) e violento pare sarà pure il futuro marito di Marcella (e qui la cattiva stella).

Gli altri – a parte un rimbrotto d’un borghese alla moglie che osa intromettersi in una discussione politica fra lui e il figlio – sono esenti da violenza e per niente solidali con Ivano; piuttosto sono solidali con Delia, tutti, e in prima fila la sua amica preferita, la “verdumaia” come si dice a Roma, che mostra d’avere un ottimo rapporto col marito che lei piuttosto comanda un po’ a bacchetta.

E c’è pure un accenno ad una autonomia femminile (femminista?) in una merciaia che sottolinea al rappresentante di cerniere lampo che lì, in quel negozio, di uomini non ce n’è e che se vuole vendere le sue zip deve accontentarsi della firma di una donna.

La violenza di genere dunque risulta essere un fatto limitato e circoscritto nei confronti del quale nessuno solidarizza e che nessuno condivide. Solo Ottorino rimprovera il figlio, ma non perché è violento con la moglie, ma perché è violento a casaccio e non in maniera corretta e sistematica: deve batterla, la moglie, ma non in continuazione come fa lui, ma forte e solo una volta ogni tanto che sennò s’abitua e finisce col non essere educativo e comunque deve farlo fuori dalla vista dei figli (“mi hai mai visto mai picchiare la tua povera madre, tu?”, più o meno gli dice).

In questo film la violenza è di genere ma non è un fatto sociale; è privato e isolato, isolabile; non è frutto di una educazione generale sbagliata; è più un fatto famigliare. E la soluzione positiva invece sta nel fatto sociale e anzi politico, nell’esercizio del diritto di voto, quando per la prima volta le donne italiane furono chiamate ad esprimersi sulla forma di stato, fra monarchia e repubblica (quando, peraltro, pare votarono in maggioranza per la monarchia – così mia suocera, ma anche mia zia Maria che pure era una donna “libera” e all’avanguardia) (qui poi non si capisce perché al seggio diano due schede per votare quando ovviamente era una sola e si dice, facendo equivocare che quelle furono le prime elezioni politiche; le prime politiche in senso proprio non furono nel giugno del 46, ma nell’aprile del 48 e in questa occasione si diedero due schede: una per la Camera e una per il Senato; per il Referendum la scheda era una sola, ma tutto questo poco importa: non è un documentario, ma un’opera di fantasia).

E qui, dunque, nell’espressione del conquistato diritto di voto sarebbe la liberazione o la speranza della liberazione. La storia proverebbe il contrario, dato che dal ’46 ad oggi, nonostante il suffragio universale e malgrado le conquiste sociali, nonostante l’accesso delle donne a professioni ieri solo maschili, nonostante tutto la violenza di genere ancora c’è ed è pure diffusa, insopportabilmente diffusa.

E tuttavia il momento liberatorio in questo film c’è; la presa di coscienza di Delia della sua condizione di subordinazione c’è; e c’è nella difesa, nella tutela dell’integrità fisica della figlia, di Marcella, in due momenti: quando le regala i soldi che aveva “rubato a se stessa”, cioè che aveva guadagnato e che aveva sottratto all’amministrazione di Ivano, perché possa studiare – è con l’istruzione che può emanciparsi; e quando Delia fa in modo che la figlia si liberi dalla probabile futura violenza del fidanzato; quando con atto autonomo, con atto proprio, estremamente violento e fuori dalle righe, politicamente scorretto fa saltare per aria, e col tritolo, il matrimonio di Marcella; un botto sottovoce.

Condividi articolo:

spot_img

Block title

“Quel fazzoletto color melanzana”

Agrigento, a le Fabbriche la presentazione del libro di Arianna Mortelliti

No alla violenza sulle donne. l’Inps di Agrigento si illuminerà di rosso

Nell'ufficio relazioni con il pubblico sarà attivato uno sportello rosa dedicato alle donne

Dobbiamo imparare ad amarci

Violenza sulle donne. Perché le cose cambino è importante partire da noi stesse

La lunga pedalata delle donne

Anche per potere pedalare una bicicletta le donne hanno dovuto lottare