E’ il titolo del nuovo libro di Carlo Barbieri. L’autore ne parla con Gaetano Celauro.
Carlo Barbieri pubblica “Te la do io, la maledetta frase celebre”, il suo ventunesimo libro, e si conferma un autore poliedrico e coinvolgente in grado di passare da un genere letterario a un altro senza perdere un colpo, mantenendo uno stile colto e intelligente, arguto e a tratti persino umoristico, ma capace di inattese profondità.
Dal suo “Pilipintò”, prima raccolta di racconti umoristici, il nostro autore è passato infatti a romanzi gialli di successo (editi da Todaro, i Noir Italia de Il Sole24Ore, Dario Flaccovio e Ianieri) che vedono come protagonista il suo commissario Francesco Mancuso, poi, “a causa di un attacco di nonnite”, come dice lui stesso, alla letteratura per l’infanzia con una serie di nove libri in chiave “mistery”(Einaudi Ragazzi) il cui protagonista, il piccolo Ciccio, altri non è che il commissario Mancuso bambino, ma anche con un avventuroso fantasy, il cui protagonista – manco a dirlo – è un altro bambino siciliano, “Pino Tanuso e l’incredibile SuperBike Ali-N” (Einaudi Ragazzi). Segue un omaggio molto diretto alla sua città: “Tre passeggiate a Palermo” (Kalós), una sorta di guida turistica in cui Barbieri conduce il lettore “a braccetto”, come dice nel sottotitolo, in una esplorazione a modo suo della capitale dell’isola, con inediti e inattesi punti di vista.
A conti fatti, cinque generi letterari, quindi, che con l’ultimo nato diventano sei.
Ma di cosa parla “Te la do io la maledetta frase celebre”? L’autore ce lo fa capire dai primi righi: “Siamo sicuri che tutte le frasi famose di personaggi come Albert Einstein, Steve Jobs, Oscar Wilde, eccetera, siano indiscutibili perle di saggezza? Questo libro è dedicato a chi non ne è del tutto convinto”.
Segue una raccolta di citazioni celebri corredate dal commento dell’autore: lucido e impertinente, permeato dalla sua vis umoristica ma anche dal garbo e dalla leggerezza che fanno parte del suo stile; ma pure – per chi vuole scoprirla – da quella serietà sottotraccia che traspare in molte sue opere, e che in questa si annuncia già dalla dedica: “Al civilissimo Dubbio, padre della Tolleranza”
A quale genere letterario appartiene questo Te la do io, la maledetta frase celebre?
Davvero non lo so, sono sincero. La domanda me la sono posta anch’io, e non sono riuscito a pensare a una definizione migliore di “Irriverentironicumoristiserio”, ma mi sa che non esiste. Sono così indeciso che ho regalato il libro a dieci persone chiedendo in cambio di dirmi secondo loro a che genere letterario appartiene. Ancora non mi ha risposto nessuno, mi devo preoccupare?
Quale delle frasi celebri che ha commentato è più aderente alla sua filosofia di vita, e quale personaggio tra quelli citati le è più congeniale e ritiene più attuale?
In realtà nella galleria di personaggi non ce n’è uno che mi è particolarmente congeniale; se avessi dovuto mettercene uno, avrei scelto Luigi Pirandello, maestro del civilissimo Dubbio. Ce n’è però uno che ha detto una cosa molto in linea con lo spirito del libro, Voltaire: “Gli sciocchi ammirano ogni parola di un autore famoso, io leggo per me solo, e mi piace soltanto quello che fa per me”.
Continuerà a scrivere libri dello stesso genere?
Vorrei potere rassicurare te e i tuoi lettori con un bel “Prometto di non farlo più”, ma ormai ho imparato a non fidarmi più di me stesso. Troppe volte nella mia vita mi sono trovato a fare cose che mai avrei pensato che avrei fatto. Meglio evitare “malefiure”.
Dopo la parte iniziale del libro, con le frasi celebri e le sue riflessioni che le mettono in discussione, c’è quella finale che contiene sue considerazioni personali, frasi in un certo senso “pronte a diventare frasi celebri”. A quale delle due è più legato?
La risposta che mi è venuta subito in mente è stata “A tutte e due, perché l’opera è qualcosa che nasce unica e inscindibile, come un bambino: non puoi dire che vuoi più bene alla sua testa o alle sue gambe”. Riflettendoci un momento mi sono reso conto però che sono legato più alla seconda parte. Ma per due motivi che penso tu non possa immaginare. Il primo è che ironizzare su molte frasi celebri è come sparare sulla Croce Rossa; se ne prendi una, metti il cervello in “modalità critica” e te la rigiri nella testa, ci sono buone probabilità che ti renda conto che forse non è così univoca e non discutibile. Non a caso questa parte del libro, come spiego all’inizio, è stata ispirata da un introvabile libriccino degli anni ’30 che dimostra come i proverbi si contraddicano spesso fra loro. L’altro motivo è più intimo: mi fanno pena, poverini, i miei pensieri contenuti nella seconda parte, perché so che non diventeranno mai celebri, e questa cosa, da genitore dei medesimi, mi rattrista…Sto scherzando, eh?