Fondato a Racalmuto nel 1980

“Professione emigrato”. I nostri “paginoni” raccontano

Da I “paginoni”, presenti per oltre 30 anni nella versione cartacea del nostro giornale, un reportage di Gaetano Savatteri sull’emigrazione, pubblicato nell’agosto del 1984. 

Malgrado tutto, agosto/settembre 1984
Malgrado tutto, agosto/settembre 1984

Il biglietto ferroviario di seconda classe Agrigento-Liegi costa centounmila e quattrocento lire. Solo andata, naturalmente. Pochi prevedono di tornare entro breve tempo. Una ventina di anni fa erano anche meno. Chi parte non sa quando potrà tornare, né se tornerà mai più. Sono gli anni Sessanta. L’emigrante con la sua valigia di cartone legata con lo spago, è spettacolo consueto nelle stazioni di tutt’Europa. Sono gli “schiavi bianchi”, i “negri d’Europa”, quelli che abbandonano la loro terra in cerca di pane. Pane, ancora una volta, amaro.

Un triste primato

Quanti ne sono partiti? Ottocentomila siciliani sono sparsi in tutto il mondo mentre sono cinque milioni i siciliani oriundi, cioè figli d’emigrati, non più in possesso del passaporto italiano. Attualmente la provincia di Agrigento conta più di trentamila espatriati per causa emigrazione. Tra questi ci sono 2.500 racalmutesi. Insieme a Palma, Raffadali e Ravanusa, Racalmuto è uno dei quattro paesi dell’agrigentino che, più pesantemente, è stato colpito dall’emorragia migratoria.

Eugenio Napoleone Messana

Nel 1966, Eugenio Napoleone Messana, sindaco di Racalmuto per otto anni nel periodo tra il 1950 e il 1961, scriveva in premessa ad un suo libretto di versi dialettali Lu piniu di l’emigranti: “Racalmuto, il mio paese, pur essendo il più ricco paese minerario della provincia di Agrigento, è martire numero uno in Sicilia della dolorosa piaga sociale dell’emigrazione”. E’ un triste primato, facilmente riscontrabili nei dati statistici. Nel 1900, momento di massima espansione economica e demografica, Racalmuto conta 16.029 abitanti che nel 1.911 divengono 14.398. Nel 1936 si registra un ulteriore calo: gli abitanti sono diventati 13.061. Nell’immediato dopoguerra, nel 1951, si scende ancora a 12.623. I risultati dell’ultimo censimento stimano la popolazione attuale in 10.250 abitanti, dai quali bisogna sottrarre 1.900 emigrati che, pur trovandosi fuori Racalmuto, non hanno comunicato il cambio di residenza.

Sono gli anni Cinquanta e Sessanta quelli che vedono più massiccio il deflusso di braccia e cervelli verso l’estero e il nord Italia. Nell’immediato dopoguerra l’emigrazione viene non solo incoraggiata dai governi dell’epoca, ma addirittura programmata. In un rapporto, redatto nel 1949 dalla Direzione generale dell’emigrazione, si legge: “I vantaggi dell’emigrazione per l’Italia non possono essere limitati al solo settore economico: non meno importanti potranno essere i riflessi sociali”. La classe politica vede di buon occhio l’emigrazione come valvola di sfogo delle tensioni sociali. In definitiva “la scelta migratoria – scrive il sociologo Ugo Ascoli – appare ai governanti il miglior modo di affrontare gli squilibri dell’immediato periodo post-bellico”. Anche nell’ambito delle sinistre e della chiesa cattolica la politica d’incoraggiamento dell’emigrazione trova giustificazione. Con queste premesse prende avvio il fenomeno che nel corso di un ventennio priverà di braccia le terre del meridione.

Fino al 1975 il numero degli espatri sarà maggiore di quello dei rimpatri. Ma in quell’anno si avverte un’inversione di tendenza, anche se l’emigrazione non scompare. “Il più grande errore che si possa commettere oggi in Sicilia è proprio quello di considerare finito il fenomeno dell’emigrazione solo perché il gioco dei numeri ci dice che è ritornato quasi alla pari il saldo migratorio”. Francesco Paolo Azzara, direttore del mensile pubblicato dal Segretariato regionale per l’emigrazione siciliana, ha ragione. “negli ultimi mesi – ha detto nel dicembre scorso Giovanni D’Angela, segretario provinciale della Cgil-Inca, partecipando ad un convegno che si è svolto a Palma di Montechiaro – il fenomeno migratorio si è aggravato. L’impossibilità di trovare lavoro nasce dalla mancata coscienza della classe politica di mutare radicalmente la politica economica”.

Eppure il 6 giugno scorso è stata promulgata una legge regionale, che si viene ad aggiungere alla legge numero 55 del 1980, dove sono contenuti gli interventi legislativi a favore degli emigrati. A vantaggio di chi rientra sono previsti contributi finanziari emessi dal Comune di residenza. La Regione si incarica di aiutare gli emigrati che debbono pagare gli interessi sui mutui contratti per costruire nuove abitazioni. E’ anche prevista la costituzione di comitati comunali destinati a mantenere i contatti tra gli emigrati e i familiari. In Parlamento sono stati presentati i provvedimenti per la riforma dei comitati consolari, per il censimento e il voto degli italiani all’estero, per la revisione delle norme sulla cittadinanza. Intanto la situazione italiana continua a presentare aspetti paradossali. Da un lato l’Italia è stata per molti anni la nazione che ha fornito manodopera a basso prezzo al resto d’Europa e del mondo. D’altro canto già nel 1979 si registrava la presenza di 400 mila stranieri in Italia. Marocchini, tunisini, lavoratori libici e filippini si riversano sulle nostre regioni in una babilonia di lingua e di razze. “Da terra d’emigranti a paese d’immigrati” titolava nel 1980 il settimanale “Famiglia cristiana”. Immigrati che incontrano in Italia gli stessi problemi dei nostri emigrati all’estero.

Prima difficoltà: la lingua

“Quando sono arrivato ad Hamilton nel 1951 – dice Giovanni Macaluso – la prima difficoltà è stata la lingua, poi trovare un lavoro ed una casa. Ora non è più così. Ad Hamilton già negli anni Sessanta c’erano settemila racalmutesi. A James Street si parla italiano. I negozi hanno insegne italiane. Ogni giorno canali televisivi diffondono programmi in lingua italiana. C’è una stazione radiofonica che trasmette ininterrottamente italiano”.

La situazione di Hamilton è particolare. Qui la più grossa comunità straniera è composta da racalmutesi. Ad Hamilton sorge la Fratellanza Racalmutese, una associazione con 350 soci che l’anno scorso ha festeggiato il cinquantesimo anniversario della fondazione. Il vicesindaco di Hamilton è il racalmutese Vincent Agrò e pure racalmutese è uno dei consiglieri provinciali. “Il sindaco di Hamilton ci presta molta attenzione – continua Giovanni Macacaluso – i voti conservatori racalmutesi possono determinare infatti una rielezione”.

La presenza di stazioni radiotelevisive in lingua italiana, l’esistenza di un quotidiano Il Progresso, scritto e pubblicato da italiani, l’interesse verso il mondo sociale e politico, rivelano che l’integrazione degli emigrati in Canada è stata pressòche totale, pur restando l’attaccamento alle proprie origini. “No, non tornerei più in Italia aggiunge Macaluso – ormai la mia vita è ad Hamilton. Mia moglie è canadese, i miei figli sono nati e cresciuti lì. A Racalmuto torno ogni tanto per le vacanze”.

“Nel ’66 sono emigrato a Burnley, vicino Manchester. Prima ho lavorato nell’industria tessile, poi sono passato nel commercio” dice Nicolò Schillaci, titolare della trattoria Sicilia, rimpatriato sei anni fa. “All’inizio ci sono state difficoltà, specialmente per la lingua, ma a Burnley abitavano già i miei fratelli, che mi hanno aiutato. Gli inglesi nei nostri confronti erano abbastanza gentili. La gente colta capiva che noi producevamo la loro ricchezza, il popolino invece era contro noi emigrati. L’emigrato è sempre considerato uno che ruba il pane in casa d’altri”.

Antonino Falletta, oggi pensionato, ha abitato per cinque anni in Inghilterra e successivamente in Belgio. Da due anni è definitivamente a Racalmuto. “In Inghilterra stavo bene – dice – gli inglesi erano persone gentili, almeno a me così sembrava. Chi conosceva la lingua meglio di me sosteneva che c’erano gli inglesi gentili e quelli che non lo erano. M, si sa, tutto il mondo è paese. In Belgio, poi, si parla in siciliano. C’erano molti italiani in Belgio. Dell’estero rimpiango gli uffici pubblici: c’era un’educazione, una velocità che in Italia non esiste”. La lingua, la casa, il lavoro sono i problemi di tutti. Difficoltà uguali accomunano i tanti emigrati.

Emigrazione vuol dire trauma, significa lasciarsi alle spalle un mondo che si ama e che si conosce per trapiantarsi in un mondo diverso, dove si è costretti ad essere uomini differenti” ha scritto il giornalista Egidio Sterpa, che molte volte, durante la sua attività, si è dedicato ai problemi del meridione.

Joseph Alessi ha vent’anni, è figlio di racalmutesi. Abita ad Accrington, vicino Manchester. Dopo le scuole superiori ha iniziato a lavorare, è stato assunto da una catena di negozi di abbigliamento. E’ un emigrato di “seconda generazione”: “In Inghilterra mi sento un italiano a tutti gli effetti. Da parte dei giovani inglesi non c’è discriminazione  nei nostri confronti, anzi, siamo quasi ammirati e invidiati”.

Salvatore Morreale, 24 anni, residente ad Ans, in provincia di Liegi, lavora presso una ditta che installa impianti elettrici: “Abito in Belgio da vent’anni, sono praticamente cresciuto là. Ci andò mio padre nel ’55. Andò a lavorare nelle miniere di carbone. E’ un lavoro pesante quello nelle miniere, mio padre è morto a 43 anni. Ha lasciato tre figli. In Belgio siamo trattati bene. I giovani non fanno distinzioni. Noi figli d’italiani usciamo insieme ai belgi, andiamo a ballare, a mangiare con loro. Gli anziani invece sono un po’ razzisti: venite a mangiare il pane nostro, dicono a noi italiani. Scherzando, ma lo pensano veramente”.

“I nostri figli si sentono italiani – aggiunge Giovanni Macaluso che per sette anni è stato presidente della fratellanza Racalmutese di Hamilton – nell’officina di mio figlio, appena si entra, la prima cosa che si vede è una grande bandiera tricolore. Ad Hamilton i medici e gli avvocati italiani hanno clienti canadesi. I canadesi non fanno distinzioni, l’importante è che ognuno sappia fare bene il proprio lavoro”. Ad Hamilton i figli d’italiani comunque preferiscono stare tra loro, anche se nei confronti dei canadesi non ci sono né invidie né ostilità.

“E’ per una questione di mentalità – dicono – tra noi italiani ci comprendiamo meglio, a casa riceviamo la stessa educazione”. Esiste indubbiamente un certo campanilismo fra gli italiani all’estero. E’ un modo per difendersi, per ribaltare le posizioni, per non sentirsi inferiori ed invasori. Al numero 1683 di St. Claire Avenue,a Toronto, c’è il negozio di Franco Guercio, un italo-americano. Vende pentole e batterie da cucina. Lo scorso anno ha distribuito tra i suoi clienti un depliant pubblicitario: in alto la foto della formazione azzurra che ha vinto il mundial 1982, sotto una frase: “La Quenn’s Choice, la batteria americana con valvola incorporata, preferita dalla famiglia italiana”. E’ l’esempio tangibile di come, anche nella pubblicità, si faccia appello all’italianità, intesa come carattere distintivo.

Le famiglie ci tengono a dimostrare le proprie origini. Sono legate alla loro terra. Tutto ciò che è italiano è buono. Ciò che viene dall’Italia è sbandierato ai quattro venti. Tanti piccoli fattori, negli ultimi anni, hanno determinato, questa nostra orgogliosa superiorità: la stessa vittoria ai mondiali di calcio, la fama dei nostri stilisti. L’attaccamento alla propria terra, inoltre, produce strani fenomeni. Si ricreano, fuori dalla Sicilia, tante piccole nuove patrie, tanti nuovi paesi dove le tradizioni, la lingua, gli atteggiamenti rimangono quelli della Sicilia di un tempo, cristallizzata nella memoria collettiva degli emigrati. Ma se gli emigrati non cambiano, l’emigrazione ha cambiato Racalmuto.

Leonardo Sciascia fotografato da Angelo Pitrone

L’emigrazione – scrive Leonardo Sciascia – ha contribuito a migliorare il livello di vita e far entrare la Sicilia nell’universo del consumismo. Quelle piccole somme inviate ogni mese hanno per effetto che oggi il livello di vita medio dell’isola non differisce sostanzialmente da quello delle altre regioni italiane. L’aspetto paradossale di questo fenomeno è che i cinquecentomila o più che hanno deciso di lasciare la Sicilia per andare altrove a guadagnarsi la vita, conducono all’estero esattamente lo stesso tipo di esistenza che si conduceva in Sicilia trenta o quaranta anni fa”. Si creano, così, degli insoliti sistemi economici fondati interamente su soldi guadagnati all’estero. E’ il caso di Palma di Montechiaro, il cui asse portante economico è costituito dalle rimesse degli emigrati. “Che stranezza! – continua Sciascia – Uomini che procurano il benessere e che sono all’origine del cambiamento, ma che non cambiano essi stessi; che vivono la realtà dei paesei stranieri come se fosse “in vitro” e che nell’intimo conservano la psicologia, la mentalità e i meccanismi di un tempo”.

Dove si dirigono gli emigrati

L’emigrazione dal dopoguerra ad oggi ha preso tre grandi direzioni. Il continente americano, i paesi del nord-Europa, l’Italia settentrionale. L’emigrazione transoceanica si sviluppa soprattutto tra le due guerre e negli anni ’50. Si dirige, in particolar modo, verso le regioni canadesi, ma interessa anche gli USA e America latina (Argentina, Venezuela). Partono verso questi luoghi racalmutesi che fino al quel momento hanno lavorato presso le minierte di sale e di zolfo. E’ una emigrazione che, anche nella coscienza di chi parte, non dà speranza di ritorno. Ormai sono praticamente ridotte a zero le partenze verso il nuovo continente. Si continua a partire, invece verso le nazioni europee (Belgio, Germania, Francia e Inghilterra). Si tratta di braccianti agricoli, manovali, edili, in massima parte tra i venti e i venticinque anni che vanno a raggiungere familiari già da molti anni residenti all’estero. Alcuni di questi tornano dopo un periodo di tre, quattro anni.

Il terzo flusso è indirizzato verso le metropoli dell’Italia centrale e settentrionale. Riguarda giovani diplomati e laureati in cerca di un’occupazione, quasi sempre, nella pubblica amministrazione: vincitori di concorso, insegnanti che a Racalmuto rischiano la disoccupazione a vita.

Da Malgrado tutto Agosto-Settembre 1984

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