Grotte, quella foto sbiadita racconta
Ed è un continuo sentire di paesi che si svuotano: gente che va altrove, curve demografiche in discesa libera. E i giovani? I giovani appunto, che non resistono un solo istante a rimanere in quei luoghi, che certo nulla fanno per trattenerli. E se continua così, mi diceva uno che di queste cose ne capisce, tra qualche anno, questi paesi saranno come le abbandonate città minerarie del vecchio West, con le loro strade polverose, percorse da palle di sterpi rotolati dal vento, usci scardinati dall’incuria ed un implacabile sole che noiosamente tramonta; e se da lì, per mera avventura si trovasse a passare un forestiero, anch’egli avrebbe l’aspetto indifferente e stanco di Lucky Luke appena sfuggito dalla penna di Morris.
Ma, per i siciliani è storia antica, già nel 1903 ad emigrare furono 58.820 e, tra questi, moltissimi di Grotte.
Ero soldato in alt’Italia e dopo i primi giorni conobbi un ragazzo friulano, che se fosse stato delle mie parti avrei detto un Gran Lombardo. Mi disse “ conosco le tue zone…abbiamo un comune denominatore: anche noi emigriamo… fuori, all’estero, altrove… una volta, sono venuto lì per conoscere da vicino quelle persone…da civile sono un praticante giornalista. Mi trovai in un paese d’arenaria, risplendente e dorato, passavo il tempo tra la bottega del barbiere e i tavolinetti di un caffè lì vicino, preferendo quello che stava all’ombra di un muro puntellato da ciuffi di santoreggia. C’era un vecchio sonnacchioso che dopo qualche giorno si rassicurò della mia presenza. Volle sapere che facevo. Quelle persone le ricordava, a volte erano intere famiglie oppure andavano avanti i mariti: c’era bisogno l’atto di richiamo…l’America, mogli e figli l’avrebbero seguito. Ma era anche l’occasione perché alcuni si disperdessero, che non si avessero più notizie. Qualcuno, si insinuava, aveva cambiato anche nome, non era complicato, si era fatto un’altra famiglia e quella rimasta in paese, pascolianamente, era rimasta a “pigolar sempre più piano”.
Il cancello in ferro battuto, aperto a metà, era proprio in fondo a quello che poteva considerarsi una specie di prostilo in arenario, scavato dal tempo, al quale nessuno, ormai, prestava più tanta cura. Un timpano con ai lati due angelotti, in altorilievo, che sorreggevano un nastro sul quale, una volta, doveva esserci stata un’iscrizione, ora slavata dal tempo, sormontava un filare di colonne doriche. Da lì si dipartiva a dritta e a mancina l’alta cinta muraria coperta selvaggiamente dall’edera. Soltanto a distanza, dall’erta e tortuosa viuzza che bisognava percorrere per raggiungerlo, potevano vedersi, alti e svettanti, i maestosi cipressi toscani.
Così appariva il camposanto comunale all’occhio di chi ci andava per la prima volta, passando invece inosservato, per tutti quelli, tanti, che ormai conoscevano a memoria quel luogo.
Come accadeva, da quando era andato in pensione, ogni quindicina, il professore, così semplicemente chiamato in paese, col sole tiepido della prima mattinata, si recava in quella terra consacrata non solo per visitare i propri cari, ma anche per intrattenersi con il custode. Una specie di catasto ed anagrafe delle gentilizie e dei più. Profondo conoscitore dei fatti della vita ma anche post mortem, di quelli che considerava, a prescindere dall’anagrafe di ognuno, suoi coevi; espertissimo conoscitore di vicende familiari, testamentarie e relative liti successorie.
Il professore ultrasessantino, ma ancor giovane, sembrava proprio un attore dei caroselli in bianco e nero: dritto nella postura, nel suo vestito di fresco di lana, aveva l’inspiegabile capacità, come tante volte raccontò il custode, di arrivare con le scarpe lucidissime, nonostante la polvere che ricopriva la strada. Recava, ogni volta dei fiori, sempre diversi in ragione del periodo, che coltivava nel proprio giardino e che con compostezza, dopo essere rimasto un attimo sull’attenti, deponeva davanti alla lapide dei caduti in guerra. Appena entrato, gli venne incontro il custode, ancora, stante l’ora, in camicia e bretelle, che lo accolse con un mezzo sorriso di circostanza, dato il luogo e la funzione, ma con la gioia di avere finalmente qualcuno cui far conoscere quello che considerava il suo patrimonio.
“Egregio professore, come sta?”
“Non mi posso lamentare…”
“Se facessero il dovere come lei, qui, ogni giorno sarebbe Ognissanti…ma sa, ognuno ha i propri impegni…il lavoro…altre cose, così rimangono soltanto i veri devoti…”.
“Lei ha ragione, ma come vede io sono presente e vengo a fare quello che per me non solo è un dovere, ma un imperativo categorico”.
Anche se il custode non capì perfettamente il concetto, il termine categorico gli illuminò il volto facendolo ritornare ai tempi di quand’era militare, dove le espressioni del capitano erano simili a quella appena sentita.
“Se permette, l’accompagno…”, disse stendendo con garbo la mano.
Il professore, che non aspettava altro, diede il passo, speranzoso di un giro lungo. Si avviarono per i vialetti incorniciati, ad intervalli regolari, dai cipressi. Erano nella parte più antica, quella che il custode nel descriverla, con termine catastale, diceva –così era all’impianto -.
Lì, cominciò con le sue narrazioni, piene di particolari e che non poche volte stupivano il professore, che così era tenuto a fermarsi trattenuto dalla mano dell’accompagnatore, che gli toccava con lievità il braccio.
E fu storia di carestie, di colera, di duelli rusticani, di tradimenti insanguinati, di vendette trasversali e di morti innocenti.
Giunsero, tra un discorso e l’altro, davanti ad una cappella, dall’aspetto anonimo, che certo da tempo non riceveva visite. Il professore da lì era passato chissà quante volte, ma poteva giurare di non averla mai vista. Fu inspiegabile, dapprima a se stesso, perché lì si soffermò, sbirciando, con una malcelata curiosità, oltre il cancelletto.
Al custode non parve vero : “Vede, professore, forse lei non ricorderà che strana vicenda, all’epoca capitò a quella donna, che ora lei vede in quella foto sbiadita. Lei doveva essere studente universitario o erano i suoi primi anni d’insegnamento, comunque di sicuro non era di paese, lo ricordo benissimo, perché capitò che una volta che s’era ammalato il portalettere, tempo d’influenza, ai suoi, una sua lettera da Palermo gliela portai io”.
Lo sguardo fisso del professore, come a voler mettere a fuoco quel fatto lontano, quasi a mirarlo, fu il la che diede inizio al racconto.
“La signora che vede e suo marito avevano otto figli, ch’erano nati uno appresso all’altro. Famiglia modesta, ma dignitosa. Lei era sarta, di quelle brave, lui invece faceva lo scritturale. Certo il lavoro non gli mancava, con tutte le lettere che all’epoca si scrivevano, con le domande da presentare al municipio o al distretto militare. Ma nonostante lavorassero sodo, se non fosse stato per l’aiuto delle sorelle del marito, sarebbe stato durissimo crescere quei bambini. Il marito era un bell’uomo, dai modi gentili, sapeva stare in società e sapeva parlare: aveva studiato! Purtroppo il matrimonio, avvenuto quando lui era ancora troppo giovane, gli aveva fatto interrompere gli studi di matematica a Palermo. Nonostante gli sforzi, le necessità economiche della famiglia aumentavano sempre più, tanto che lui si decise ad emigrare in America. Non mancava mese che non arrivasse alla moglie una sua lettera piena di dolci baci e di dollari, lì il nostro, aveva trovato posto come contabile in una miniera di carbone. Poi le lettere cominciarono a non avere la puntualità dei primi tempi, cosa che l’uomo giustificava col fatto che era costretto a fare un doppio lavoro per mandare più soldi alla famiglia, fino a quando le lettere non arrivarono più. Non ci fu verso di avere notizie, nonostante l’intervento delle autorità cittadine, persino l’arciprete scrisse ad un vescovo americano, ma non c’era modo di sapere. La famiglia era inquieta, non aveva di che pensare, finché un giorno arrivò al municipio un fonogramma dal consolato, dove si diceva, premessa la compartecipazione ufficiale, che nella miniera dove lavorava quell’emigato era scoppiato il grisù e non c’erano superstiti. Alla notizia la moglie cadde in uno stato di prostrazione tale che non si riebbe più, i bambini furono affidati prima alle cure dei parenti e poi alle suore, tanto che molti di loro intrapresero la vita ecclesiastica, tranne l’ultimo che con gli stenti di tutti gli altri riuscì, studiando e impegnandosi con abnegazione, a diventare medico”.
Il professore, ormai seguiva col massimo dell’attenzione quel racconto tanto da non accorgersi nemmeno di un cane che, dicendo e facendo, voleva passare in mezzo alle sue gambe, spingendo col muso.
“Fino a qui, certo la cosa dispiace, ma è una delle tante che le posso raccontare. La cosa strana, – disse, facendo una pausa, per imprigionare l’attenzione, già rapita, del professore – accadde qualche tempo dopo, quando in paese si cominciò a mormorare che forse l’uomo non era rimasto vittima dell’esplosione. Allora che ne era stato? Dov’era finito? Forse, pensò qualcuno, aveva sperso la memoria e l’avevano preso in ostaggio gli indiani, quelli che si vedevano nelle pellicole western. Poi la cosa sembrò sopirsi, ma dopo qualche anno la storia riprese. Di ritorno da Palermo, un curioso cittadino a pochi amici al circolo aveva raccontato di essere andato al cinema a vedere “Tempi moderni” di Charlie Chaplin e lì, in una scena, poteva giurare, che una delle comparse era precisa identica allo scomparso e per di più a braccetto con una fimmina di quelle che si vedono nelle pellicole. La cosa, siccome stramba assai, nonostante il giuramento fatto dagli amici, che avevano fatto giurare altri amici ai quali l’avevano raccontata, si diffuse rapidamente. Dopo tantissimo tempo, il figlio, il dottore, partì per l’America dove aveva vinto una borsa di studio all’università. Lì si trattenne quasi un anno e, a quanto si dice, tramite un collega riuscì a prendere contatti con l’ufficio del governatore, dove vide l’elenco ufficiale di coloro che erano caduti nel terribile incidente. Sta di fatto che quando il dottore fece ritorno in paese, per prima cosa commissionò al marmista quella lapide che vede lassù a sinistra. Il professore strizzò gli occhi per poter leggere nella penombra, schiacciando il viso contro le sbarre del cancello. Oltre la foto, il nome e le date, in basso si leggeva: “libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”.
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