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Salvare il siciliano dai siciliani

Secondo un recente sondaggio pare siano circa otto milioni le persone che conoscono il dialetto, e sono sempre meno quelli che lo utilizzano

Giovanni Salvo nella casa-museo Sciascia di Racalmuto

Il particolare fermento che oggi si registra in difesa del dialetto siciliano fa sperare bene politici, studiosi, scrittori e artisti. La lingua “addutata di patri” avrebbe detto il grande poeta Ignazio Buttitta; la parlata nostrana “ca perdi na corda lu jornu” e che rischia dunque di scomparire.

Una richiesta di aiuto fin qui rimasta tappata, come sigillata in una vitrea poesia. Una missiva affidata al tempo, un foglio di carta arrotolato dentro il collo di una bottiglia lanciata tra i flutti del mare.

Un grido quello di Buttitta che, sfidando le correnti, ha galleggiato fino a raggiungere la terra ferma, i nostri giorni. Un “message in a bottle”, anzi “dans la bouteille” poiché pare che la boccia si è spiaggiata proprio a Bruxelles, nel prestigioso litorale del Parlamento Europeo.

Raccolta dall’eurodeputato Ignazio Corrao ha messo in moto una serie di lodevoli iniziative per salvare il siciliano dai siciliani.

Secondo un recente sondaggio pare siano circa otto milioni le persone che conoscono il dialetto, e sono sempre meno quelli che lo utilizzano. Il fenomeno preoccupa molto i linguisti che si sono detti pronti a “lottare” pur di arginarne la sparizione.

L’idea è quella di frenare l’opinione che la parlata in siciliano sia prerogativa degli ignoranti, quando non degli zotici o dei mafiosi. Perché sta scomparendo il dialetto siciliano? Una risposta la si potrebbe trovare proprio nel ruolo che la scuola ha osservato negli anni, ossia avere obbligato i giovani studenti siciliani ad esprimersi solo in italiano corretto.

Costretti ad un terremoto coniugale attraverso una veloce trasposizione mentale dal siciliano all’italiano; salvo poi doversi ricordare di mantenere solo alcune forme verbali, vedi i condizionali. Chissà se così non fosse stato quanti se sarebbe avremmo scansato alla nostra umanità.

Averli indotti a formulare concetti attinenti agli argomenti trattati, ciò dunque attraverso una faticosa simultanea traduzione, è da considerare oggi una colpa a fin di bene?

Sarà stata dunque questa la causa che ha spinto molte famiglie ad evitare di parlare il dialetto in casa, ciò per non complicare la vita scolastica dei propri figli?

Chissà se, non offuscati da una lingua che pur sentendo propria ma ritenuta diversa, quanti studenti avrebbero potuto meglio dimostrare a scuola le proprie attitudini, la propria intelligenza.

Secondo la Professoressa Marina Castiglione, ordinario presso l’Università di Palermo, del quale gruppo di lavoro fa parte il racalmutese Prof. Angelo Campanella, “il dialetto sarebbe vittima di politiche generali che lo hanno de privato della sua importante funzione comunicativa”. L’obiettivo oggi è salvare il gergo siciliano dal quale abbiamo ricevuto i valori trasmessi dai nostri nonni.

La parlata della memoria, delle novelle, delle filastrocche, dei proverbi.
Il vernacolo di cui si sono serviti scrittori, poeti, cantastorie per raccontare della Sicilia, per preservarne le radici, per custodirne la memoria.

L’idioma che ha permesso per lungo tempo il trasferimento e la conservazione della nostra identità.

“Quando un popolo, un paese, una collettività, grande o piccola che sia, non perde la memoria vuol dire che non è disposta nemmeno a perdere la libertà”: sono queste le parole pronunciate dallo scrittore Leonardo Sciascia in difesa del ricordo, unica strada per preservare la libertà.

Lo scrittore di “Regalpetra” nonostante il suo forbito e preciso italiano, “la lingua del ragionare”, avvertì lo stesso il bisogno di spiegare la sua storia “minima” attraverso la parlata popolare. Lo fece egregiamente illustrando i modi di dire siciliani del proprio paese, Racalmuto, con un libro unico dal titolo Occhio di capra. Spiegò così il significato di quelle parole che se tradotte dal siciliano avrebbero perduto la loro efficacia.

Sciascia che pur non amando tanto il dialetto siciliano, in qualunque modo molto la Sicilia, se ne dovette servire lo stesso per spiegare l’inizio del suo percorso letterario, il suo “microcosmo”:

“Forse è a questa storia minima che io debbo l’attenzione che ho sempre avuto per la grande”. Considerava il dialetto siciliano limitativo, oltre che l’idioma dei complessi, in virtù del fatto che, leggendo l’explicit di Occhio di capra, la nobiltà siciliana ne aveva sentito il bisogno di addolcire il suono di certe parole in uso ritenendole stridule, non degne di rango.

Riprendiamoci noi stessi, difendiamo le nostre radici è il grido che arriva oggi dal Parlamento Europeo. Ben vengano dunque iniziative come “Il manifesto di Bruxelles”, che possa trovare altre sponde. Per dirla con Pasolini “lottiamo per tornare ad essere padroni della nostra realtà”.

 

Da

LA STRADA DEGLI SCRITTORI

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