La sua storia si perde addirittura tra le righe di due dei testi sacri più letti (e studiati) di tutti i tempi: la Bibbia e il Corano
Frittura, croce e delizia dell’era contemporanea. Alzi la mano chi non ha mai detto o semplicemente pensato che qualsiasi specialità, se fritta, ha tutto un altro sapore. Diciamocela tutta, ben vengano le ricette light, soprattutto contro uno dei nemici più temuti e silenziosi degli ultimi decenni (che risponde al nome di colesterolo…), ma non c’è paragone che tenga tra la cottura in olio o strutto bollenti e quella al forno o alla griglia. Scritto ciò, e avendo quindi ossequiato tutta la verità e nient’altro che la verità, andiamo serenamente avanti.
Dunque, si scriveva della frittura e di come sublimi il palato ma, ahimè, molto meno qualcos’altro. E tra le tantissime specialità, ne vogliamo segnalare una in particolare, la cui storia si perde addirittura tra le righe di due dei testi sacri più letti (e studiati) di tutti i tempi. Sia la Bibbia che il Corano menzionano infatti un particolare “pane dolce”, poi divenuto una frittella (chiamata sfincia, dall’arabo isfanǧ, ovvero “spugna”), che rientrava a pieno titolo nei piatti della tradizione mediorientale, quelli cioè fritti in olio o grassi. Ebbene, a cavallo dell’anno Mille, i conquistatori saraceni fecero ovviamente conoscere questa loro specialità ai sudditi siciliani, i quali però, come è sempre successo, ci misero “del loro”, eccome. Si narra infatti che secoli dopo la dominazione musulmana, le suore del Monastero delle Stimmate di San Francesco (edificio che, a Palermo, non è più esistente poiché abbattuto nel 1875 per creare lo spazio urbanistico necessario alla costruzione del Teatro Massimo), legarono per sempre questo grande e soffice bignè fritto e decorato col solo zucchero a velo – quindi dalla ricetta piuttosto semplice – alla figura di San Giuseppe, il Santo degli Umili, che, secondo una certa tradizione, da falegname, dopo la nascita di Gesù e vivendo in una terra che non era più la sua, divenne venditore di frittelle: da tutto questo, il nome della specialità di cui si sta scrivendo, ovvero “Sfincia di San Giuseppe”.
Ma chiaramente non è finita qui, perché infatti, ulteriori secoli dopo, furono i maestri pasticceri palermitani (i quali intanto avevano ereditato dalle clarisse del capoluogo la ricetta della sfincia) che ebbero l’intuizione di “impreziosirla” con l’aggiunta di ricotta di pecora nella parte sommitale, creandone così una prima versione, quella schetta, che poi diventa maritata se la crema di ricotta è inserita anche all’interno della sfincia stessa. Quindi la succulente croccantezza della cialda fritta unita alla morbida cremosità della ricotta: un vero tripudio di sentori gustativi, e su questo siamo tutti d’accordo.
Ma non c’è stato solo l’innesto dell’ingrediente ricotta, perché cominciarono a essere utilizzate anche scorze d’arancia candita, scaglie di cioccolato fondente e granella di pistacchio o mandorla, il tutto a decorare una specialità che è ormai entrata a far parte dei classici della pasticceria siciliana (le è stata infatti riconosciuta anche l’etichetta PAT, ovvero l’essere un Prodotto Agroalimentare Tradizionale), da poter gustare in qualunque giorno dell’anno e non solo, quindi, il 19 marzo, in occasione della Festa del papà, nel giorno dedicato proprio a San Giuseppe.